XV Domenica T.O. – B

Non si può annunciare ciò che si sconosce e non si può testimoniare ciò che non si vive.

Dal Vangelo secondo Marco (6,7-13)

In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

 

 

La prima lettura di questa Domenica ci fa ascoltare l’episodio della cacciata del profeta Amos dal santuario di Betel. Amos appartiene al territorio di Giuda, a sud d’Israele, e viene mandato da Dio a predicare al nord, a Betel, in Samaria. Giudei e Samaritani, pur essendo ugualmente israeliti che adoravano lo stesso unico Dio, erano nemici giurati. Due regni, due capitali e persino due templi in cui adorare lo stesso Dio. In questo contesto di divisione, Amos deve portare una parola di richiamo a Betel da parte di Dio, particolarmente a quei sacerdoti che erano stati costituiti tali non per la loro discendenza ma per arbitrio del re di Samaria. Amos deve entrare e parlare dentro la gabbia dei leoni! E, infatti, il sacerdote Amasia, avendo ascoltato la parola profetica di Amos, lo manda via in malo modo. Amos, allora, prontamente così risponde: Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele (Am 7,14-15).

Ecco, questo testo mostra in poche battute l’essenza della vocazione profetica, quella antico-testamentaria e quella neo-testamentaria, sia degli apostoli nel senso stretto del termine, sia di ogni credente in Cristo che per l’unzione battesimale è costituto profeta, discepolo-missionario del Regno.

È certo che ancora oggi nella Chiesa per molti credenti l’opera missionaria è qualcosa che appartiene a pochi eletti, possibilmente religiosi-consacrati, che hanno fatto studi specifici nel campo teologico-dottrinale. Senza sminuire l’importanza di una solida formazione personale e preparazione dottrinale, particolarmente per chi avverte la chiamata della missio ad gentes, cioè l’annuncio a quanti sconoscono la fede cristiana in varie parti del mondo, è altrettanto vero che nelle nostre comunità ecclesiali occidentali, abituati per secoli solo a questo tipo di missione, facciamo adesso molta fatica a pensarci e ad agire come missionari in casa nostra, nel nostro occidente ormai scristianizzato e, soprattutto, che ogni battezzato è e deve essere missionario nel proprio ambiente di vita.

Gli apostoli, come Amos, non avevano chissà quale background di formazione teologica. Furono chiamati mentre erano occupati nelle loro quotidiane faccende lavorative, non sempre impeccabili, come Matteo il pubblicano che fu chiamato mentre riceveva per conto degli oppressori romani le imposte dei suoi concittadini israeliti.

Ora, se ascoltiamo il brano di oggi staccato da tutto il contesto del Vangelo, soprattutto da ciò che lo precede, sembrerebbe che Gesù chiamò questi dodici e immediatamente dopo li inviò in missione. Invece, sappiamo bene che la chiamata al discepolato, che non ha riguardato solo dodici persone, è avvenuta un po’ di tempo prima. Tra tutti i chiamati al discepolato, “ne costituì Dodici – che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni” (Mc 3,14-15). Furono costituiti apostoli perché innanzi tutto stessero con lui e, poi, per mandarli a predicare.

Impostata così, sembrerebbe che per essere apostoli c’è un primo e un secondo tempo. E in effetti c’è. Anche Amos lo dice chiaramente: Il Signore mi prese, mi chiamò… mi disse: Va’, profetizza.

C’è un primo tempo che è dato dall’essere “presi”, tolti dal mondo, dal proprio mondo, dalla mentalità del mondo. È il momento della conversione, quello della fede, dell’affidarsi al Signore. Ed ogni cristiano, per il battesimo, per la sua fede consapevole, da convertito e salvato, pur essendo nel mondo, non dovrebbe appartenergli per mentalità e stile di vita. Il primo vero impedimento all’essere missionari sta proprio qui, in questo non vivere pienamente il proprio battesimo e le esigenze del Vangelo, il vivere una fede annacquata dalla mentalità del mondo.

Accanto a questo essere presi, c’è la chiamata, ossia lo stare con Gesù, il fare comunione di vita con lui e con i fratelli, che si traduce nel vivere il proprio essere Chiesa, membra del corpo di Cristo, in maniera attiva e responsabile. Senza questa esperienza di un discepolato comunitario in cui si sta con Gesù, lo si celebra, lo si adora riconoscendolo Signore, lo si serve nei fratelli, particolarmente i più bisognosi, non si saprebbe cosa fare. Poiché la missione, prima di essere fatta di parole, è fatta di testimonianza di amore e di comunione, di servizio generoso, di attenzione ai bisogni dell’altro. E ciò lo si impara facendo Chiesa, stando insieme agli altri con lo stile di Gesù, cinti del grembiule.

In questa esperienza di Chiesa e nella Chiesa, il discepolo ascolta la Parola, impara a viverla e condividerla con i fratelli, vivendo di essa e per essa, assumendo la mentalità di Cristo. È questa Parola, incarnata nella propria vita, che va annunciata, senza aggiunte o sottrazioni. Come Amos, il discepolo-missionario può affermare di annunciare ciò che il Signore gli ha detto, né più, né meno.

A fronte di tanti battezzati, sono veramente pochi i missionari, non perché sconoscono chissà quali tecniche e metodi di annuncio del Vangelo o chissà quali nozioni dottrinali, ma perché difettano o mancano del tutto dell’esperienza del discepolato comunitario, dello stare con Gesù insieme ai fratelli e le sorelle nella Chiesa. Non si può annunciare ciò che si sconosce e non si può testimoniare ciò che non si vive.

Troppi cristiani non danno seguito al loro battesimo nell’esperienza del discepolato perché temono che sia qualcosa di triste, pesante, troppo impegnativa, soprattutto per un giovane di oggi. Ecco perché, tra le tante esperienze possibili di Chiesa, i membri del Movimento Giovanile Francescano, proprio perché giovani, offrono l’opportunità di sperimentare ambienti e incontri a misura dei giovani di oggi: accoglienti, allegri, conviviali, con un uso sapiente delle nuove tecnologie. Lasciati almeno prendere dalla curiosità di vedere se tutto ciò è vero! Vieni e vedi!

fra’ Saverio Benenati, ofm conv.