XXII Domenica T.O. – A

“Rinnegare se stessi” non è un’operazione per la morte, ma per la vita, per la libertà e per la gioia.

Dal Vangelo secondo Matteo (18,15-20)

In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.
Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».
Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.
Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?
Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».

 

 

 

Oggi la liturgia nella prima lettura ci fa ascoltare uno sfogo-lamentazione di Geremia, un giovane chiamato quasi a forza a fare il profeta. Egli stesso all’inizio del testo esclama: Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso. Se non fosse per quanto ascoltiamo subito dopo, sembrerebbe che il giovane Geremia sia felice di essere stato sedotto, anzi violentato, da Dio a realizzare la sua personale vocazione e missione di profeta.

Ma, come sappiamo bene da altre storie di vocazione, sia nell’antico che nel nuovo Testamento, dentro la storia di ognuno e soprattutto nell’atto della chiamata è nascosta anche la missione del chiamato. Se, dunque, Geremia ha sperimentato una sorte di “dolce” ma ferma violenza da parte di Dio – lo sappiamo dal principio del suo libro laddove il profeta ricorda la sua chiamata insieme alle sue paure e rimostranze: Ma il Signore mi disse: “Non dire: “Sono giovane”. Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò e dirai tutto quello che io ti ordinerò” (Ger 1,7) – è perché dovrà gridare “Violenza!”.

Nessuno è chiamato ad assolvere una missione particolare in nome e per conto del Signore se prima non ne ha fatto una personale esperienza. Prima di essere missionari si è testimoni; prima di comunicare con gesti o parole qualcosa occorre che il missionario l’abbia sperimentata personalmente e dunque ne sia testimone credibile. Quanti cristiani vogliono annunciare la croce di Cristo che salva senza mai averla sperimentata e nemmeno intendono sfiorarla con il solo sguardo! Quanti parlano di misericordia senza averla mai ricevuta riconoscendo il proprio errore e il proprio peccato e nemmeno largamente e gratuitamente concessa a quanti pentiti hanno chiesto loro umilmente perdono!

Non così per Geremia che avendo assaporato il sapore dolce della violenza di Dio nel costituirlo profeta, non solo dovrà annunciarla – di lì a poco Gerusalemme sarà distrutta e il popolo verrà deportato in Babilonia – ma dovrà anche subirla sulla propria pelle a causa del rifiuto del suo annuncio da parte dei capi d’Israele: “Così la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno”. Ma il profeta non si tira indietro poiché – confessa – “nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”.

 

 

È alla luce di questa esperienza profetica che dobbiamo oggi leggere il Vangelo in cui Gesù, compimento della figura profetica di Geremia, perseguitato per la sua missione salvifica, riconosce la propria sorte: andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.

Ed ecco ritornare sulla scena Pietro-Kefa che, come abbiamo detto la scorsa domenica, in quanto costituito in autorità sul popolo di Dio è chiamato a portare sulle spalle la croce di Cristo per essere testimone credibile della fede poco innanzi pronunciata: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!. Ma se quella professione di fede era stata rivelata dal Padre, adesso Pietro parla secondo la carne e il sangue, pur ammantando il discorso di pia religiosità: Dio non voglia, Signore… Ma il vero problema di Pietro è che lui non vuole soffrire, patire, essere partecipe di una croce troppo pesante e ripugnante al solo pensiero. Pietro è disponibile ad accettare l’onorificenza di essere costituito in autorità ma senza gli oneri. È disposto a portare addosso i fregi dell’autorità – le chiavi del regno dei cieli – ma senza sopportarne il peso e le conseguenze. Pietro in questo senza rappresenta tanti cristiani che portano al collo una croce o un crocifisso, ostentazione orgogliosa della propria fede, ma senza volerla toccare con la carne viva della loro esistenza. Anzi, di fronte ad ogni possibile croce che la vita presenta, fuggono a gambe levate. E così quella croce che viene ostentata al collo non è altro che un talismano idolatrico.

Che nell’uomo ci sia un sano istinto di autocorservazione è più che legittimo, guai se non ci fosse! Il cristiano non è un masochista religioso che se la va a cercare, anche se in tanti declinano la fede cristiana in chiave “mortificante” piuttosto che redentiva e vivificante, dimenticando che dopo la passione e la morte viene la risurrezione. Ecco il vero punto della questione: c’è una parte di Pietro, di me e di te, che va rinnegata, a cui va detto di no, a cui vanno sbarrate le porte, perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.

La croce per la croce è solo masochismo mortificante. La croce come atto di consegna di sé al Signore, dei propri attaccamenti terreni – fosse anche la propria vita! – è liberazione vivificante: la vita ci viene restituita in una maniera nuova. Le croci, quelle vere, quelle che sono accolte secondo Dio, non sono mai fini a sé stesse e per una sofferenza insensata, ma ci rivelano sempre gli idoli a cui siamo incatenati e che serviamo da schiavi. Chiediamoci sempre di fronte ad una croce da che cosa Dio vuole con essa liberarci. E se l’accogliamo come l’ha accolta Gesù, allora rinasceremo ad una nuova vita, quella dei figli di Dio, autenticamente liberi.

Quando scegliamo la nostra vita, di restare attaccati ad essa e al mondo che ci abbiamo costruito attorno, scegliamo qualcosa di limitato, a termine, persino troppo spesso deludente, autolesionistica e autodistruttiva, sia a livello spirituale e psicologico che a livello puramente biologico. Al contrario, quando scegliamo la vita che Dio vuole donarci, allora si dovranno dire dei no, far morire una parte o anche tutto noi stessi. Solo a questo punto Dio potrà cambiare la nostra morte in vita, la nostra croce in strumento salvezza, la nostra passione in gioia che non ci sarà mai tolta.

Che in ognuno di noi possa sempre rimanere acceso il fuoco che scoppiettava nel cuore di Geremia, cioè quel desiderio ardente di Dio, di quell’amore più grande per cui vale la pena affrontare ogni difficoltà, ogni impedimento, ogni rifiuto, ogni persecuzione che ci purifica e ci rende persone nuove, liberate e liberanti nel nome di nostro Signore Gesù Cristo.

fra’ Saverio Benenati, ofm conv.