XXV Domenica T.O. – B

Per essere credenti basta sapere, ma per essere discepoli è fondamentale la consapevolezza di non sapere, di non aver ancora vissuto pienamente l’esperienza di Cristo e di non aver ancora raggiunto la sua statura.

Dal Vangelo secondo Marco (9,30-37)

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

 

 

 

Dopo l’esperienza a Cesarea di Filippo in cui è palese come Pietro e gli altri discepoli non hanno compreso nulla dell’annuncio della sua passione, morte e risurrezione, Gesù decide di ritagliarsi del tempo per spiegare meglio il progetto di salvezza del Padre.
È talmente importante per Gesù far comprendere il senso della sua passione e morte, che non vuole distrazioni di sorta e pertanto non vuole assolutamente che alcuno sappia della sua presenza nel territorio della Galilea. Devono restare i discepoli e lui solo che in quanto Maestro ha bisogno di svelare il senso della croce e che comunque questa non avrà l’ultima parola poiché dopo tre giorni risorgerà.

Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Uno dei grandi problemi della Chiesa e che l’accomuna ai chiamati della prima ora è quello di non volersi assumere la responsabilità e il peso del discepolato. Ci basta essere credenti. Ma l’essere credenti appartiene a qualunque religione. Essere discepoli, in atteggiamento di sequela, ascolto, comprensione e crescita nella fede, è invece qualcosa di unico che appartiene al cristianesimo. A parte il fatto che oggi più che nel passato c’è una grande e diffusa ignoranza riguardo l’oggetto e il contenuto della fede cristiana, ma l’essere cristiani non consiste nel conoscere più o meno a memoria un po’ di dottrina, ma conoscere e relazionarsi con la persona vivente di Gesù Cristo. La fede cristiana, pertanto, non è una questione di erudizione, bensì di esperienza, dell’aver cioè incontrato la persona vivente di Gesù Cristo, aver sperimentato il suo amore misericordioso e la sua salvezza, e il vivere in lui, con lui e per lui. Questa esperienza della fede contempla anche il morire al peccato e alla mentalità del mondo e il risorgere con Cristo a vita nuova. Il discepolo è, perciò, uno che cresce nell’esperienza di Cristo e attraversa insieme a lui tutto il processo della salvezza: la chiamata alla fede mediante l’annuncio-vangelo dell’amore del Padre, l’esperienza della croce salvifica di Gesù Cristo suo Figlio, la vittoria sulla morte mediante la sua risurrezione e, infine, l’esperienza dello Spirito santo che ci rende Chiesa e abilita alla missione, senza però smettere di essere discepoli in crescita che hanno bisogno di ricominciare ogni giorno da capo e dal capo-Cristo.

 

 

Per essere credenti basta sapere, ma per essere discepoli è fondamentale la consapevolezza di non sapere, di non sapere compiutamente, di non aver ancora vissuto pienamente l’esperienza di Cristo e di non aver ancora raggiunto la sua statura. San Paolo si lamentava con i Corinzi di non poter ancora offrire di più nella conoscenza di Cristo perché si erano fermati ad una fede da bambini e si ostinavano a non crescere nella fede: Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a esseri spirituali, ma carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non cibo solido, perché non ne eravate ancora capaci. E neanche ora lo siete, perché siete ancora carnali (1Cor 3,1-3). E ciò non tanto perché non conoscessero i contenuti fondamentali della fede cristiana, ma perché non crescevano nell’esperienza della fede, ma restavano impantanati nella mentalità del mondo e in questioni puramente umane e materiali. Così come i discepoli della prima ora ai quali Gesù parlava di svuotamento di sé, di umiliazione, di croce, di servizio d’amore portato all’estremo dono di sé, ma essi, senza prestargli ascolto, discutevano tra loro su chi fosse il più grande, il più importante, chi avrebbe dovuto comandare sugli altri al posto di Gesù una volta morto e sepolto!

Questi discepoli parlano tra di loro ostinandosi a non parlare con Gesù e a non confrontarsi con lui. Il loro parlare è orizzontale, sulla linea dei discorsi umani, per niente verticale, in atteggiamento di ricezione e di crescita nella dimensione dello spirito. Ma, come leggiamo nel libro di Qoelet, ogni opera dell’uomo, “ogni fatica e ogni successo ottenuto non sono che invidia dell’uno verso l’altro” (Qo 4,4), che è la trappola in cui sono caduti i discepoli.

Ed ecco, allora, il grande insegnamento di Gesù per quei discepoli e per noi: la grandezza di un uomo non sta nel dirsi e farsi grande da sé stesso, ma nell’esserlo diventato, attraversando tutte le fasi della crescita, dell’apprendimento, dell’esperienza. La vera grandezza di un discepolo di Cristo sta nell’accogliere e far crescere in sé stesso la persona di Gesù Cristo, facendone esperienza quotidiana “fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,13), fino a diventare alter-Christus, crocifisso e risorto, così come san Paolo dirà di sé stesso: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,19-20).

Gesù per noi si è fatto piccolo come un bambino e ci chiede di accoglierlo come dono prezioso del Padre perché possiamo amarlo, custodirlo, e permettergli, sul serio, di condizionare tutta la nostra vita, gioendo e soffrendo con lui e per lui. Bisogna chiedere a una coppia di sposi cosa ha significato e comportato per loro l’arrivo di un figlio, come ha condizionato la loro vita, come li ha fatti crescere in tutti i sensi facendoli uscire dal loro egoismo. D’altronde, padri o madri non lo si è per titolo anagrafico e neanche perché si è letto qualche libro, ma lo si diventa per esperienza, formati sul campo paradossalmente dal proprio figlio! Per essere padri e madri occorre ritornare un po’ bambini e, insieme a propri figli che diventano la misura di tutto, crescere nell’avventura della vita. E così anche per un discepolo di Cristo: occorre farsi piccoli, come lui si è fatto piccolo e ultimo, ed insieme crescere nell’avventura della vita che non avrà mai fine. Più Cristo crescerà in noi più noi cresceremo in Cristo.

fra’ Saverio Benenati, ofm conv.