XXXII Domenica T.O. – C

Piuttosto che porsi domande oziose sul «come» della resurrezione e della vita futura nel Regno, occorre chiedersi: per chi e per che cosa vivo qui e ora?

Dal Vangelo secondo Luca (20,27-28)

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

 

 

 

Nel Vangelo che ascoltiamo questa Domenica si presentano a Gesù i sadducei. Normalmente siamo abituati a vedere i farisei e gli scribi interloquire con Gesù con domande tendenziose per trovare un qualche appiglio per accusarlo dinanzi al sinedrio. Questa volta, invece, ad esporsi è la stessa classe sacerdotale e gente ad essa vicina, i sadducei appunto, gente facoltosa che per mantenere il proprio potere e prestigio non si fa scrupoli a collaborare con i romani e pertanto molto pratica. Pratica fino al punto di guardare anche nella religione e quindi nel rapporto con Dio al benessere di quaggiù piuttosto che accettare che possa esserci un benessere oltre la vita. Hanno messo su un sistema religioso ma anche molto pratico di una vita senza risurrezione, senza uno spiraglio di eternità.

Qualcosa di molto attuale e che purtroppo è largamente diffuso anche tra quanti si credono credenti in Cristo: la loro fede e le loro pratiche religiose sono volte ad ottenere un benessere solo terreno, qui e ora, teso anche ad allontanare da sé il giorno e la sola idea della morte intesa come punto finale dell’esistenza umana. Perciò, secondo questa idea religiosa molto pragmatica, occorre trarre il massimo profitto e godimento, anche con la benevolenza e la benedizione di Dio, dalle cose di questa terra finché c’è vita.

Già san Paolo dovrà dedicare un intero capitolo, il quindicesimo, della sua prima lettera ai corinti per smontare questa concezione religiosa presente anche nei primi cristiani di una relazione con Dio senza cielo, senza eternità: «Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (1Cor 15,16-19).

Se il senso della nostra vita si risolve tutto nell’arco della nostra esistenza umana, allora il cristianesimo è una grande bufala e il non-senso per eccellenza. Senza la prospettiva dell’eternità, della risurrezione e della beata ricompensa riservata ai giusti, che senso ha l’amore, il perdono, l’elemosina, la povertà volontaria, l’evangelizzazione, etc.? Se non c’è risurrezione e vita eterna, non c’è neanche alcun Giudizio, né premio né condanna, pertanto sono legittimato oggi a trarre il maggior profitto possibile da questa vita anche calpestando e annientando chiunque mi ostacoli nelle mie ambizioni umane di potere e di ricchezza. La terra sarebbe la giungla in cui vince il più forte, il pesce grosso mangia il pesce piccolo.

Il Rabbì Gesù di Nazareth che predica di risurrezione e di vita eterna, di accumulare tesori nel cielo piuttosto che in terra, di sopportare con pazienza e speranza privazioni e persecuzioni in vista di un premio eterno nei cieli, va contro ogni concezione religiosa della vita “a termine”. Ma a differenza dei farisei e degli scribi che fondamentalmente hanno posto questioni precise riguardo l’osservanza della Legge o l’interpretazione autentica delle Scritture, i sadducei vanno da Gesù per metterlo in ridicolo di fronte la gente.

La risposta di Gesù non si fa attendere ed è molto seria: I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito, si adoperano per una sistemazione e un benessere pratico e immediato, secondo priorità piccole, minuscole, che li escludono da qualcosa di più grande come nell’immagine del banchetto preparato dal Re ma da cui molti si astengono per cosucce piccole come l’andare a vedere un terreno appena acquistato o l’andare a provare dei buoi… (cfr Lc 14,15-24).

Invece, i figli di Dio, quelli che credono nella vita eterna e vivono in funzione di essa, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Ma cosa significa che i primi, i figli di questo mondo, prendono moglie e prendono marito, mentre i figli di Dio e della sua risurrezione, non lo fanno? Anche san Paolo ne parla in una delle sue lettere laddove scrive: «Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo!» (1Cor 7,29-31).

Ecco il senso del discorso, prima di Gesù e poi di san Paolo: tutto ciò che “prendiamo” in questo mondo passa. Non si tratta solo dei beni materiali, ma di qualunque altro “possesso” umano inteso come qualcosa di inalienabile da noi e che ci caratterizzerebbe per sempre. E all’epoca, come ahimé anche oggi, è diffusa l’idea che tutto ciò che introitiamo in questa vita ci appartiene oggi e per sempre. Il coniuge come i figli sono visti non tanto come persone da amare, a cui donare il cuore e la vita, quanto come un possesso per il proprio personale benessere; quelli che provano dei sentimenti estremi – il dolore o la felicità – ritengono che la loro vita sarà per sempre segnata in tal modo senza possibilità di rovesciamento; e così via.

 

I figli del Dio eterno e immortale, vivono le relazioni, i sentimenti, i possedimenti terreni non secondo le categorie della carne per cui ciò che entra in essi diventa carne della loro carne, indissolubilmente una cosa sola con la loro umanità, ma al contrario come qualcosa di esterno, un altro da me da rispettare, curare, anche usare ma secondo le categorie del cielo e dell’eternità.

Essi, infatti, sono uguali agli angeli, cioè ai messaggeri di Dio, suoi inviati, esecutori della sua volontà. Una cosa, infatti, è vivere il matrimonio o la famiglia per appagare la propria fame affettiva e psicologica, altro è vivere il matrimonio e la famiglia come una missione affidataci da Dio; una cosa è vivere lo studio o il lavoro per arricchirci e per acquisire una posizione nella società rispetto agli altri, altro è vivere lo studio e il lavoro come una vocazione-missione per edificare un mondo più giusto e solidale secondo le categorie del Regno di Dio.

Gesù solleva anche per noi, uomini e donne del terzo millennio, una questione a cui occorre dare una risposta: vivere determinati dalla morte, in funzione di questo muro invalicabile posto di fronte alle nostre esistenze o vivere per la vita intesa come un dono di Dio di cui prendersi cura secondo le sue categorie; vivere per il nulla o per il cielo; vivere per morire o vivere e basta! Quanti uomini e donne, anche che si dicono credenti, affrontano la vita come una lotta per la sopravvivenza, per chi campa più a lungo e meglio! Pochi sono quelli che affrontano la vita come una missione, mettendoci amore e collaborando Dio nel renderlo un po’ migliore di come lo si è ricevuto.

fra’ Saverio Benenati, ofm conv.