La Pentecoste segna l’inizio di un parlare nuovo, secondo il linguaggio dell’amore di Dio.
Dal Vangelo secondo Giovanni (15,26-27; 16,12-15)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.
Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Non si può approfondire il significato della Pentecoste senza fare riferimento al racconto che ne fa il libro degli Atti degli apostoli al capitolo 2. I Vangeli, particolarmente quello di Giovanni, ci rivelano che l’effusione dello Spirito è stata un tutt’uno con il mistero pasquale della morte e risurrezione di Cristo. Gesù emette lo spirito al momento della sua morte in croce, lo soffia sugli apostoli riuniti nel cenacolo il giorno della risurrezione e così anche in altre occasioni di incontro con il Risorto. Ma il testo degli Atti, raccontandoci l’episodio accaduto cinquanta giorni dopo la risurrezione di Cristo, ci offre tutti gli elementi caratteristici l’effusione dello Spirito santo tra cui spicca il “parlare in altre lingue”. Così il testo ci narra che “la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua”. I presenti, pur provenendo da tanti luoghi diversi e distanti, dicevano stupefatti: “come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?” e “li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio”.
È indubbio che la più immediata ed evidente opera dello Spirito nell’uomo è l’esprimersi in una lingua comprensibile a tutti. Ma di che lingua-linguaggio si tratta? Gli uditori dicono che si tratta della propria lingua “nativa” e che il suo oggetto sono “le grandi opere di Dio”.
Con l’effusione dello Spirito santo, gli apostoli non parlano di sé stessi, di quello che hanno fatto o non fatto, non mettono al centro la loro opera, bensì le grandi opere di Dio. Mettono al centro del loro parlare Dio che ci ha tanto amati da dare a noi il suo figlio unigenito, sacrificandolo sulla croce al posto nostro e per amore nostro. Ne parlano non per sentito dire, ma perché “noi tutti ne siamo testimoni”. Parlano del grande progetto universale di salvezza del Padre compiuto nel suo Figlio Gesù, rileggendo tutte le Scritture a partire dalla morte e risurrezione di Cristo. Parlano di come Gesù ha trasformato le loro vite. Parlano, in definitiva, dell’Amore di Dio di cui hanno fatto esperienza in Gesù morto e risorto. Ed è questo linguaggio, quello dell’amore, che chiunque può udire e comprendere, perché è la “lingua nativa” di ogni essere umano. È quel linguaggio che ogni uomo impara prima ancora di iniziare a balbettare qualche parola. È la lingua della mamma e del papà che ti hanno preso in braccio appena nato, che si sono presi cura di te, che si sono spesi per te, che ti hanno promesso di dare la propria vita per te dimostrandotelo in mille modi.
Ecco, allora, che le parole di Gesù rivolte ai suoi discepoli nel Vangelo odierno si illuminano di significato. Gesù definisce lo Spirito che manderà loro come il Paraclito, parola greca che indicava l’avvocato, colui che suggeriva all’imputato cosa dire a propria difesa. Lo Spirito, dunque, è colui che illumina i discepoli sulle cose che riguardano Gesù – egli darà testimonianza di me – e per dire ciò che è proprio di Gesù – prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà –.
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Quante parole vuote, incomprensibili, senza senso, anche nella nostra Chiesa! Parole umane, che parlano di sé e delle proprie opere. Parole autoreferenziali, autocelebrative, autonome. Parole che non parlano al cuore, parole che non entusiasmano, che non danno gioia, che allontanano da Dio perché non dicono la Parola e non parlano di Dio, non lo mettono al centro, non parlano delle grandi opere che ha fatto, che fa e che può sempre fare.
Si sente quando ci si sforza di parlare di Dio e quando, invece, il parlare di Dio è naturale, spontaneo, semplice, diretto, gioioso, fecondo… vero, secondo lo Spirito di Verità.
Chiediamo oggi e ogni giorno una rinnovata effusione dello Spirito santo perché la nostra lingua, il nostro corpo, i nostri gesti, i nostri atti, le nostre opere, parlino di Dio, parlino il suo linguaggio, il linguaggio del suo sconfinato amore per ogni uomo.
fra’ Saverio Benenati, ofm conv.