Italiani: cattolici e individualisti

Da una recente ricerca del Censis emerge che oltre il 70% degli italiani si dicono cattolici, ma la maggior parte di essi vive la religiosità in modo individualista.

 

 

Dalla ricerca commissionata al Censis dalla Conferenza Episcopale Italiana emergono più sfide che conferme. L’Italia rimane sì un Paese fondamentalmente cattolico, che si riconosce nei valori della fede cristiana e che dedica del tempo alla preghiera, ma la pratica religiosa sta diventando sempre più individualista e quindi sempre più lontana dalla comunità ecclesiale. Il dato fondamentale è che gli italiani che si definiscono cattolici sono il 71,1% della popolazione: il 15,3% si dice praticante, il 34,9% dichiara di partecipare solo occasionalmente alle attività della Chiesa e il 20,9% afferma di essere “cattolico non praticante”. Ma nella fascia che va dai 18 ai 34 anni la percentuale di coloro che si dichiarano cattolici scende al 58,3% di cui praticanti sarebbero solo il 10,9%.

Ma cos’è che spinge il 55,8% degli italiani a una pratica saltuaria o assente, pur pensandosi cattolici? Il principale motivo pare essere una forma di “individualismo religioso”. Più di metà di coloro che di fatto rimangono distanti dalla pratica regolare (il 56,1%) dicono di farlo perché vivono “interiormente” la fede.

 

 

Giulio De Rita, il ricercatore del Censis che ha seguito l’indagine, spiega che negli italiani c’è una certa diffidenza nei confronti dell’esperienza comunitaria. La Chiesa viene vista un po’ troppo clericale, quindi non in grado di valorizzare le risorse di valore che avrebbe al suo interno. La cosa paradossale, spiega il ricercatore, è che gli italiani ritengono la parrocchia un luogo accogliente, il sacerdote una persona con cui ti puoi confrontare, ma non li vedono amalgamati nella società, incapaci di ascoltare i cambiamenti che avvengono fuori dalla Chiesa ma anche di ascoltare i laici che quei cambiamenti li portano necessariamente con sé.

La ricerca del Censis rivela, infatti, che al primo posto tra le ragioni dell’abbandono delle comunità ecclesiali ci sta la tendenza da parte della Chiesa ad emarginare i “fedeli di valore” o quelli più intraprendenti: lo pensa il 49,2% degli italiani (tra i praticanti la percentuale scende al 38,1%). C’è pertanto una grande fetta di italiani che vorrebbe una Chiesa più coraggiosa, capace di dare più spazio ai laici.

 

 

Il 66% degli italiani dichiara di “pregare” o comunque di rivolgersi a Dio o ad un’altra entità superiore: lo fa anche il 65,6% dei non praticanti e addirittura l’11,5% dei non credenti. Si parla però di una preghiera legata non alla liturgia comunitaria, quanto piuttosto a situazioni esistenziali individuali: il 39,4% degli italiani prega quando vive un’emozione, il 33,5% quando ha paura e vuole chiedere aiuto. Anche tra i praticanti solo l’8,8% dichiara di pregare all’interno di un rito.

 

 

Questi, come tutti gli altri dati raccolti dal Censis, ci parlano di una popolazione che ha sicuramente delle aspettative nei confronti della Chiesa e di una ampia fetta di credenti e praticanti che la sfidano a saper leggere i segni dei tempi, attendendosi dai loro pastori risposte credibili ed efficaci all’auspicata Chiesa-in-uscita mediante la costruzione di comunità calde, accoglienti, aperte al mondo e ad un laicato, quello giovanile in primis, che non accetta di essere relegato ai margini, soggetto passivo di un diffuso e mai sopito clericalismo monolitico ed autoreferenziale. Non si può nascondere che dentro le comunità locali, quali le parrocchie, c’è chi vive la sensazione di essere marginalizzato o di sentirsi trattato come un fattore di disturbo. Valorizzare le differenze che esistono dentro la Chiesa, ascoltando e accogliendo le istanze che muovono dal suo interno, è propedeutico a quel dialogo di stampo sinodale e missionario con la società che stenta a decollare.