L’evangelizzazione è innanzi tutto testimonianza dell’amore di Dio. E l’amore Dio si testimonia amando: non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità (1Gv 3,18).
Tra i tanti episodi evangelici che ci aiutano a comprendere cosa sia la Fede, ce n’è uno che in questi tempi mi ritorna particolarmente alla mente e mi suscita molteplici riflessioni, alcune delle quali voglio condividere con voi.
Si tratta dell’episodio narrato nel Vangelo secondo Luca (17,11-19) della guarigione di dieci lebbrosi. Gesù, nel suo viaggio verso Gerusalemme, sta attraversando i territori della Samaria e della Galilea. Sono territori abitati da gente particolare: “eretici” rispetto alla dottrina e il culto ufficiale di Gerusalemme i primi, “secolarizzati” negli usi e nei costumi i secondi a motivo della convivenza con popolazioni greco-ellenistiche, tanto che in una stessa famiglia, come quella di Simone e di Andrea che sono di Cafarnao, città di confine tra la Giudea e la Galilea, un figlio può portare un nome tipicamente ebraico (Simone) e un altro un nome tipicamente greco (Andrea), a dimostrazione del “rilassamento” della cultura, delle tradizioni e della pratica religiosa. Un contesto territoriale, culturale e religioso, dunque, non dissimile dal nostro in cui oggi noi viviamo.
È in questo contesto che, all’interno di un villaggio, si presentano a Gesù dieci lebbrosi che manifestano tutte le contraddizioni tipiche della cultura del compromesso: praticanti la legge – che è legge religiosa, non dimentichiamolo – a metà, poiché si fermano a distanza obbedendo alla legge, ma la violano per il fatto stesso di stare all’interno di un villaggio, cosa a loro vietatissima. Questa situazione quasi rappresenta la realtà che li circonda. Il “villaggio”, infatti, è tradizionalmente un luogo dove più forti e radicati sono i valori culturali e religiosi, ma qui, in questo contesto, non è più così: si osservano le leggi e le tradizioni religiose, ma fino a un certo punto. Inoltre, in quanto lebbrosi – considerati morti-che-camminano – questi dieci esprimono la situazione profonda di quanti pensano di poter vivere nel compromesso tra religione e paganesimo.
Morti-che-camminano, cioè gente che pensa di possedere la vita ma che sono sostanzialmente morti alla vita, così come oggi siamo impregnati – pur dicendoci credenti – di una “cultura di morte”, mille miglia distanti dal Dio della vita. Credenti, ma non praticanti (si dice…); credenti, ma a favore dell’aborto e della “dolce morte”; credenti, ma costantemente affannati nella sequela del dio-denaro e dello spread; credenti, ma adoratori del successo, dei “divi” dello sport e dello spettacolo, del proprio corpo, dei propri istinti e delle proprie passioni…
I discepoli di Gesù, pochi versetti prima, gli avevano chiesto di “accrescere” in loro la fede (v. 6). Ma già nell’immediata risposta a questa domanda e ora con questo episodio Gesù dichiara che la fede non è una cosa che Dio fa piovere dall’alto, bensì la risposta dell’uomo a un dono di Dio più grande e preveniente, al dono della sua fedeltà e del suo amore per gli uomini: Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna (Gv 3,16). La fede è la risposta dell’uomo all’amore di Dio donatoci in Cristo Gesù. L’amore di Dio è un dono che in Gesù viene fatto a tutti indistintamente, come il sole che sorge sui cattivi e sui buoni e la pioggia che cade indistintamente sui giusti e sugli ingiusti (cfr Mt 5,45s). Perciò la fede non è data a discrezione di Dio – ad alcuni sì e ad altri no – o semplicemente a chi gliela chiede, bensì l’otteniamo, sotto la nostra personale discrezione e responsabilità, in quanto abbiamo risposto all’amore di Dio, risposta che permette a Dio di compiere in noi cose ancora più grandi!
Ai dieci morti-viventi che sono appunto i lebbrosi, Gesù dona nel suo amore vivificante – poiché l’amore di Dio non mortifica mai nessuno! – la possibilità di vivere una vita piena, libera, senza contraddizioni, condizionamenti e limitazioni di sorta. Ed è proprio qui che si inserisce il “dramma” della fede! Di questi dieci, nove andranno a godersi la vita che Dio gli ha donato e solo uno tornerà indietro lodando Dio a gran voce, prostrandosi davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Nove si terranno stretta la propria vita percorrendo le proprie strade che passeranno anche dal tempio per il riconoscimento ufficiale della propria guarigione (molto simile alla mentalità odierna che per dirsi cristiani basta un certificato di battesimo…), uno invece rimette la sua vita ai piedi di Gesù, dando con gioia testimonianza a tutti circa la provenienza del dono e facendo “eucaristia” (termine usato dall’evangelista per definire il ringraziamento dell’ex-lebbroso) con Gesù. Ecco la fede, quella fede che salva e dona all’uomo mortale una vita “eterna”, la vita stessa di Dio! Infatti, Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. E gli disse: “Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!” (Lc 17,17-19).
Quell’uomo, ex-lebbroso, che dimostra di avere fede con il fatto di essere tornato indietro (conversione), dando gioiosamente testimonianza a Dio nella lode e sottomettendosi a Gesù, riconoscendolo con gratitudine quale autore del dono, è un samaritano, considerato eretico dai giudei. I nove continueranno a vivere una vita da “comuni mortali”, contenti e forti del riconoscimento ufficiale dei sacerdoti, ma solo quel samaritano, in forza della sua fede in Gesù, vivrà una “vita nuova”, da salvato.
Cari fratelli e sorelle, questa è la fede, nient’altro! E questa fede siamo chiamati a possedere e a suscitare nei lebbrosi del nostro tempo delle nostre città. Come? Amando! Gesù non si è posto il problema di come si sarebbero comportati i lebbrosi dopo aver ricevuto il suo amore vivificante. Non ha fatto distinzioni tra chi lo meritava e chi no, tra degni ed indegni… Ha amato e basta. Il suo è un amore vero, gratuito, libero e, pertanto, vivificante. Sì, perché c’è anche un amore falso, che non proviene da Dio e che di fatto mortifica. È quell’amore che diamo sotto condizione, che si aspetta un qualche riscontro e almeno la gratitudine, che vuole cambiare l’altro per renderlo a nostra immagine e somiglianza, che presenta Dio e il suo amore come un insieme di norme morali, di leggi e prescrizioni a cui bisogna assoggettarsi passivamente per ottenere un premio che ha da venire…
I dieci lebbrosi si scoprirono guariti mentre ancora erano per strada. L’amore vivificante, infatti, ha un effetto immediato e cresce e si moltiplica nel tempo, non ha niente a che fare con i nostri amori “mordi-e-fuggi” che sono più a beneficio personale, per il nostro tornaconto e non tengono assolutamente conto dell’altro se non come oggetto di piacere, sia spirituale sia, ahimè!, troppo spesso, carnale. E dico, anche, tornaconto spirituale! Spesso, infatti, si sente dire che si fanno gesti di amore perché “è più quello che si riceve che quello che si dà”… Che questo avvenga è normale, ma che io ricerchi il tornaconto – sia pure spirituale – dai miei gesti di amore non ha niente a che vedere con la gratuità a cui ci richiama il vangelo. In questo senso siamo chiamati a interpretare e vivere la “perfetta letizia” indicataci da San Francesco: non la ricerca di riconoscimenti e tornaconti di qualsiasi natura, ma solo la consapevolezza di avere agito secondo Dio nell’amore deve riempire e rallegrare il nostro cuore.
L’amore vivificante ricevuto diventa a sua volta, come i frutti di un albero, vita per noi e per gli altri, cioè testimonianza dell’amore di Dio e fede che salva e spinge ad amare come si è stati amati da Dio. Perciò l’evangelizzazione è innanzi tutto testimonianza dell’amore di Dio. E l’amore Dio si testimonia amando: non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità (1Gv 3,18). E nella verità, cioè in Gesù e come Gesù, per cui è chiaro che chi sperimenta il mio amore sperimenta e vi riconosce l’amore di Dio e nient’altro.
Forse non tutti coloro che ameremo così saranno capaci di fare il salto della fede, riconoscendo cioè l’amore di Dio e rimettendo la propria vita con gioia e gratitudine ai piedi di Gesù Salvatore; forse alcuni ne approfitteranno solo per un proprio tornaconto umano, privo assolutamente di gratitudine, e taluni perfino lo rifiuteranno, ma lo sappiamo bene, guardando a Gesù sulla croce, che ad amare non si sbaglia mai, purché amiamo in Dio e secondo Dio. Se, allora, gli altri risponderanno a questo nostro amore mortificandoci, siamone lieti poiché, al di là dell’evidenza, stiamo certamente vivificando, fiduciosi della parola di Gesù che se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Gv 12,24).
Che il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità (1Ts 3,12s).
fra’ Saverio Benenati