II Domenica dopo Natale

A quanti accolgono in Gesù Cristo l’amore di Dio viene data una vita nuova da figli di Dio.

Dal Vangelo secondo Giovanni (1,1-5.9-14)

In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.

 

 

 

Ascoltiamo oggi il prologo del quarto vangelo, già proclamato nella messa del giorno di Natale. Ciò che cambia, però, è la chiave di interpretazione del testo che ci viene fornita come ogni Domenica dalla prima lettura.

Nel brano tratto dal cap. 24 del libro del Siracide la sapienza parla di sé stessa come di qualcosa di universale. Essa proclama la sua gloria dinanzi all’Altissimo ma anche in mezzo al suo popolo. Anzi, essa ha posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore è la sua eredità, nell’assemblea dei santi ha preso dimora.

Ciò che il testo vuol dirci è che la sapienza non è qualcosa di individualistico e pertanto relativistico come purtroppo oggi si tende ad inculcare alle nuove generazioni. Di fronte alle piccole e ristrette verità che circolano nei luoghi del sapere umano e in generale nella società, la Scrittura ci parla di una Sapienza che non è tirata fuori dalla mente umana, anzi la sovrasta abbracciando il cielo e la terra, che cioè è universale ed eterna e affonda le sue radici in un popolo, non nel singolo individuo.

È una Sapienza che non ha a che fare con la conoscenza delle cose, il cosiddetto sapere scientifico, ma con il popolo, la sua assemblea, cioè con la relazione che unisce le persone. Il sapere scientifico, infatti, è per sua natura divisivo poiché distingue chi sa da chi non sa e nelle sue declinazioni tecnologiche mette nelle mani di alcuni un potere che ad altri non viene concesso. Come viene plasticamente evidenziato nel racconto della Genesi, l’albero della conoscenza produce sempre delle fratture nelle relazioni.

 

 

La Sapienza di cui, invece, ci parla la prima lettura è unitiva, riguarda ciò che fa dei singoli individui un popolo. Di conseguenza, chi è il sapiente secondo la Scrittura? Chi sa stare bene con gli altri, chi tesse relazioni basate non sul potere e la supremazia, chi condivide il suo ben-essere con tutti, in chiave unitiva di pace, senza alcuna esclusione di sorta.

È quella sapienza tipica dei nostri avi che sapevano offrire con larghezza i loro insegnamenti frutto di una esperienza secolare, tramandata da generazioni all’interno di una comunità. Una sapienza che si riscontrava uguale nei contenuti in popoli e culture diverse e geograficamente lontanissime tra loro. Oggi, purtroppo, queste biblioteche viventi del sapere sono state soppiantate dai server della rete informatica in cui vengono depositate migliaia di verità assieme ad altrettante totalmente opposte. Ognuno, poi, accedendo alla rete si crea la propria personale biblioteca a propria immagine, secondo il proprio vissuto, le proprie aspettative, il proprio carattere… Ognuno con la propria personale sapienza, la propria visione del reale, che anziché unire, divide, che anziché insegnare a vivere, produce un diffuso analfabetismo sapienziale e quindi relazionale. Il famoso villaggio globale auspicato nel secolo scorso ha prodotto il suo contrario, un arcipelago universale.

Il Prologo del Vangelo di Giovanni, invece, ci parla di una Sapienza eterna ed universale, che sta a fondamento della creazione e che è Dio stesso, un Dio che è relazione e comunione, unico nella natura e trino nelle Persone, Padre, Figlio e Spirito. Una Sapienza che è incisa in tutto il creato e che lo governa, lo mantiene in essere. Una Sapienza che in un preciso momento storico si è manifestata nella carne umana, l’ha abitata e si offre con umiltà all’accoglienza di ciascun individuo. Non vi è in essa alcun tentativo di imposizione, di prevaricazione, di esclusione. È qualcosa che viene offerto in maniera gratuita e produce, in chi l’accoglie, una nuova identità, un nuovo modo di vivere e di stare nel mondo, in una armonia relazionale con il creatore e tutte le sue creature. Questa Sapienza che è Dio, viene da Dio e rende figli di Dio è l’Amore.

L’apostolo Paolo descrive perfettamente la sapienza dell’Amore nel celeberrimo inno al cap. 13 della sua prima lettera ai Corinti e che ci farebbe bene quest’oggi meditare con attenzione:

Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine.

Paolo, come il testo del Siracide e il prologo del Vangelo di Giovanni, parlano della Sapienza di Dio, del suo Amore, non come di un sentimento etereo, ma come qualcosa di molto concreto, molto pratico, di incarnato nell’esistenza umana. L’Amore di Dio si è fatto carne, si è reso visibile, concreto nei gesti, nelle parole, nella carne del figlio di Dio, Gesù Cristo, e chiunque accoglie questo Amore incarnato viene anch’esso trasformato in maniera concreta. Non è qualcosa che possiamo darci da soli, non possiamo tirarlo fuori dalla nostra carne “a sentimento”, né è frutto di chissà quale potere e conoscenze umane, ma è dono di Dio stesso, è Grazia da accogliere con fiducia.

Mentre Adamo nel tentativo di farsi dio della creazione accaparrandosi una conoscenza confusa della realtà, mettendo insieme il bene e il male, la verità e la menzogna, la luce e le tenebre, sprofonda nella divisione con sé stesso, con gli altri e con Dio, Gesù, il nuovo Adamo, ci offre in sé stesso la Sapienza di Dio che è luminosa, lineare, creativa e unitiva, che è Via, Verità e Vita, che è l’Amore.

 

 

Ecco il senso dei versetti finali del testo evangelico di oggi: Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
Sì, quando tra i credenti nella Chiesa parliamo di Amore, non parliamo di norme che regolano il buon vivere tra gli uomini – la Legge fu data per mezzo di Mosè – ma parliamo di Dio stesso, del suo farsi dono che attende di essere accolto e, soprattutto, della verità di Dio – chi è? cosa fa? cosa desidera? – e della nostra verità, della verità dell’uomo: chi sono? perché esisto? qual è il senso della mia vita?

A quanti accolgono nella fede il Figlio di Dio, a quanti accolgono l’amore di Dio in Gesù Cristo, viene data una nuova vita: una nuova visione su Dio, su sé stessi e sugli altri e su tutta la creazione, e di conseguenza un nuovo modo di vivere, di orientamento della propria esistenza, del proprio modo di stare nel mondo e in relazione con esso. Viene dato di vivere già in questo mondo quali figli di Dio, concittadini dei santi e familiari di Dio (Ef 2,19), fatti per il cielo, per cose grandi ed eterne.

fra’ Saverio Benenati, ofm conv.