Fare misericordia

Volendoci consegnare qualcosa di concreto e di riproducibile, quindi utile ai suoi eredi, Francesco d’Assisi ci consegna nel suo Testamento quale principio della sua personale conversione l’esperienza presso i lebbrosi. Esperienza che definisce con queste parole: feci con essi misericordia.

Nello scorso numero di questa nostra newsletter vi ho scritto riguardo al Testamento di San Francesco una prima riflessione di una serie che sento di offrirvi per delineare in una qualche misura quella spiritualità che ci dovrebbe contraddistinguere come appartenenti ad un Movimento francescano.

Francesco, scrivevo nella scorsa riflessione, inizia il suo Testamento con le parole “Il Signore”. Non tanto Francesco, ma è il Signore attraverso Francesco che consegna a noi l’eredità francescana. Francesco ne è quasi notaio o, se volete, esecutore testamentario o anche amministratore. E il primo dono che Francesco riceve dal Signore e che con ilTestamento consegna a noi in eredità è la misericordia: Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo

Fare penitenza. Cosa intende Francesco con questa espressione? Non certamente che il Signore chiese a Francesco di pagare pegno per i suoi peccati di gioventù! La parola “penitenza” negli scritti francescani corrisponde alla parola “conversione”. Per Francesco, penitenza significa quel capovolgimento che porta l’uomo da una vita istintiva, auto-centrata, ad una esistenza interamente soggetta e abbandonata alla volontà e alla signoria di Dio.

Questo significato di penitenza risulta anche dalla Vita prima di Tommaso da Celano, uno dei suoi primi biografi: ascoltato il Vangelo della missione degli apostoli ed il commento del sacerdote secondo cui «i discepoli di Cristo… devono soltanto predicare il Regno di Dio e la penitenza», subito, esultante di Spirito Santo, Francesco esclama di volerlo, di chiederlo, di bramarlo di fare con tutto il cuore!

Da allora, con grande fervore, egli comincia a predicare la penitenza e radunati i primi otto fratelli alla Porziuncola, dopo aver parlato a lungo del Regno di Dio, del disprezzo del mondo, del rinnegamento della propria volontà, del dominio che si deve esercitare sul proprio corpo, li divide in quattro gruppi e dice loro di andare a due a due per le varie parti del mondo e di annunciare agli uomini la pace e la penitenza. È poi da notare che tale annuncio riceverà la conferma dalla Chiesa quando Innocenzo III, nella primavera del 1210, li incoraggiò con molti consigli e li benedisse dicendo: Andate con Dio, fratelli, e come Egli si degnerà ispirarvi, predicate a tutti la penitenza.

Francesco per prima cosa ci consegna l’esperienza della sua conversione, nata per iniziativa di Dio. E come spesso ci attesta la Scrittura, anche per l’opera che vuole realizzare in Francesco, Dio si serve di “angeli” che in questo caso specifico sono i lebbrosi. A Francesco viene concesso da Dio il dono della conversione mediante i lebbrosi, quello scarto della società che per primo Francesco fuggiva. Dio prende l’iniziativa di convertire Francesco proprio a partire da ciò che maggiormente fuggiva anche solo alla vista. Lo prende di peso e lo conduce tra loro.

Perché? Perché Dio per convertire Francesco ha avuto bisogno di condurlo tra i lebbrosi? L’itinerario di conversione vissuto da Francesco fu sicuramente molto più ricco e complesso di un pur importante soggiorno e servizio tra i lebbrosi: le biografie, infatti, ci raccontano diversi e interessanti episodi, tra i quali anche l’esperienza mistica davanti alla croce di San Damiano. Eppure per Francesco, prossimo alla morte e desideroso di lasciare una memoria preziosa degli eventi importanti della sua vita, il ricordo essenziale a cui egli attribuì un valore determinante fu il tempo trascorso con i lebbrosi. Quell’evento non solo non fu mai dimenticato dal Santo ma fu il primo che ritornò alla sua memoria nel momento in cui volle raccontare di sé e della sua conversione. Dobbiamo pertanto supporre – ma fondatamente – che Francesco ha una convinzione alla base di quanto sta scrivendo: le esperienze mistiche sono dei doni personali non riproducibili e quindi non consegnabili come modello agli altri. E, infatti, Francesco nel suo Testamento non scrive né dell’esperienza di San Damiano né di quella de La Verna in cui riceverà le stigmate. Volendoci consegnare qualcosa di concreto e di riproducibile, quindi utile al lettore, ci consegna l’esperienza presso i lebbrosi. Esperienza che definisce con queste parole: usai-feci con essi misericordia.

Feci misericordia. A noi questo verbo torna strano; siamo soliti dire che si è misericordiosi, non tanto che si fa la misericordia. La misericordia per noi è un sentimento che ci porta a compiere delle opere che ne sono espressione diretta. La misericordia in sé, in quanto sentimento del cuore e atteggiamento di vita, si esprime con gesti che la rivelano e la qualificano. Ma per la Scrittura no! Per la Bibbia l’amore e la misericordia non sono sentimenti, ma qualcosa che si fa: si fa l’amore, si fa la misericordia. La parola ebraica hesed con cui traduciamo le parole amore e misericordia non descrive il cuore, ma l’agire dell’uomo. La hesed di Dio si sperimenta in ciò che Dio ha fatto e continua a fare (vedi il Grande Hallel: Sal 136), è una cosa verificabile, è qualcosa che arriva a noi, è ricevibile non come un sentimento ma come un’opera pratica e concreta di Dio.
Ma nella bibbia c’è un altro termine che noi traduciamo con misericordia, che è più autentico e più frequente poiché si riferisce quasi esclusivamente a Dio quale agente ed esprime la sua misericordia e il suo perdono: rahamim che significa utero. Secondo questa accezione la misericordia di Dio è l’atto generativo con cui Dio da vita all’uomo morto per il peccato.
Nelle parabole evangeliche è evidente come dietro le parole greche misericordia, compassione e perdono c’è dietro l’ebraico-aramaico rahamim poiché le azioni descritte sono sempre atti di vita per cui qualcuno, morto o destinato alla morte, torna a vivere (cfr. il padrone e il servo senza cuore in Mt 18,23-35; il padre e il figliol prodigo in Lc 15,11-32; ecc.). Nei contesti dove Gesù prova compassione ci sono sempre elementi che esprimono il dono della vita: moltiplicazione dei pani, la vedova di Nain, la peccatrice perdonata, ecc.
Gesù è il misericordioso per eccellenza fino al punto che, mentre lo crocifiggono, ripete con insistenza “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34), donando la sua vita ai suoi stessi crocifissori. Infatti, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo (Ef 2,4).
Ritornando alle parole di Francesco d’Assisi, comprendiamo adesso bene quello che ci sta dicendo: il Signore lo fece passare dalla morte alla vita, dall’amarezza del peccato alla dolcezza della vita nuova in Cristo, quando iniziò a dare vita a quei lebbrosi con il suo servizio in mezzo ad essi.
In tutto ciò Francesco sperimenta pienamente la quinta beatitudine: Beati i misericordiosi perché riceveranno misericordia. C’è una reciprocità tra la vita nuova che riceviamo da Dio, frutto del Suo amore, e l’amore con cui rigeneriamo i fratelli. Possiamo tradurre così la quinta beatitudine: beati coloro che vivificano con il loro amore-misericordia perché saranno vivificati da Dio.

Il vero problema dell’uomo è non tanto essere capace di misericordia ma di ricevere misericordia da Dio. E la parola di Gesù su questo punto è inequivocabile: devi usare misericordia! …rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori… Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe. (Mt 6,12.14-15)

Perché tanti giovani e meno giovani, dopo aver fatto un’esperienza forte di Dio, quale potrebbe essere nel nostro Movimento Giovanile Francescano il Corso Nuova Vita come per Francesco fu l’esperienza con il crocifisso di San Damiano, non giungono poi a viverla in pienezza? Perché manca questo passo successivo: fare misericordia agli altri per ricevere concretizzare la misericordia di Dio e così sperimentare la Vita Nuova. Come a un qualsiasi bambino non basta uscire dal grembo della madre per vivere, ma gli occorre respirare liberandolo da ciò che ostruisce le vie respiratorie, così non basta un’esperienza di Dio, per quanto forte, ma occorre liberarci da ciò che impedisce a Dio di farci vivere. La conversione raggiunge il suo culmine e produce i suoi effetti sensibili solo con un cambiamento radicale di vita mediante l’esperienza del fare misericordia, cioè del sanare le divisioni con i fratelli mediante il perdono e/o con l’abbracciare chiunque è diviso da me. Infatti, Francesco così conclude: E allontanandomi da essi [il soggetto sono “i peccati” di cui prima aveva detto che vi era immerso], ciò che mi sembrava amaro [la sola vista dei lebbrosi] mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo.

E l’avventura di Francesco, discepolo di Cristo, apostolo della penitenza-conversione, ebbe inizio. Perciò, alla base del nostro discepolato-missionario francescano non possiamo collocare altro che la conversione, frutto del fare misericordia, dell’accorciare qualunque distanza e dell’annullare qualsiasi divisione dai fratelli, a partire da quelli che ci rendono amara l’esistenza, ma che sono, nel progetto misericordioso di Dio, gli “angeli” della nostra salvezza.

fra’ Saverio Benenati

IL TESTAMENTO DI SAN FRANCESCO