Francesco cavaliere illetterato

Francesco d’Assisi si definiva ignorante ed illetterato, ma in verità questa definizione si riferisce alla formazione ecclesiastica tipica dei religiosi dell’epoca che egli non possedeva.

 

 

Nel 2023 è uscito un libro edito da Laterza dal titolo “L’avventura di un povero cavaliere del Cristo. Frate Francesco, Dante, madonna Povertà”. Un testo che ha riscontrato un grande successo di critica e di pubblico scritto da Franco Gardini, esperto di crociate e pellegrinaggi, considerato all’estero come uno dei massimi storici ed intellettuali italiani, ordinario a Firenze di Storia medievale.

Dal punto di vista storico-medievale dell’autore, quella di Francesco d’Assisi innanzi tutto non fu affatto una vocazione “giovane”. Al contrario, rispetto ai religiosi dell’epoca, Francesco arriva tardi alla vocazione religiosa, all’età di 25 anni, che per i canoni del medioevo può ben essere considerato un adulto a tutti gli effetti. La sua è stata quella che sarebbe più corretto definire una “vocazione adulta” dopo che era stato un abile mercante di stoffe, aver combattuto una guerra, facendosi perfino più di un anno di carcere a Perugia, e dopo aver viaggiato in lungo e in largo con il padre, forse anche in Francia.

 

 

All’epoca, chi intraprendeva la vita religiosa, clericale o anche monastica, alla sua età era già più che ben formato negli studi ecclesiastici. Francesco, invece, arriva alla conversione nutrito di ben altra cultura, quella gallica e dell’amor cortese. I compagni di Francesco attestano che conosceva il gallico-francese. E la Francia all’epoca era all’avanguardia per ciò che concerneva la cultura laica: quella del ciclo carolingio, quella del mito arturiano della Tavola Rotonda, dei trovieri e dei trovatori che spandevano le loro storie in tutta l’Europa. È l’epoca dei racconti che hanno al centro “le donne, i cavalier, l’arme e gli amori” che Francesco sembra conoscere bene e la cui eco si ritrova in alcuni suoi scritti o in espressioni a lui riferite nelle biografie.

Si tratta di un Francesco laico, non chierico, e che tale volle rimanere fino alla morte; il Francesco cavaliere e giullare cortese che ritroviamo nella Legenda dei Tre Compagni, nel Sacrum commercium, nella Compilazione di Assisi, in alcuni dei Fioretti, e nel Memoriale di Tommaso da Celano. Un Francesco cavaliere, diremmo molto alla “francese” negli atteggiamenti e nei modi. Un Francesco che come i cavalieri della letteratura dell’amor cortese, fedele ai suoi ideali cavallereschi, va in cerca della sua dama, madonna Povertà, per sposarla, amarla e difenderla, anche mettendo a repentaglio la sua vita e quella dell’Ordine da lui fondato.

 

 

L’idea di amore che Maria di Francia, Andrea Cappellano e un altro grande della letteratura cortese, Chrétien de Troyes, intendevano insegnare era di grado eroico: un amore generoso e gratuito, che non pretende il contraccambio e che non considera l’amato o l’amata come una proprietà, in un’epoca in cui il matrimonio era, al contrario, un’unione di convenienza, quasi sempre per unire casate e suggellare alleanze economiche o politico-militari.

L’amore di Francesco per madonna Povertà non è certamente di questo stampo, improntato alla convenienza. Al contrario, Francesco, prima innamorandosene e poi sposandola, riceve un danno d’immagine, considerato pazzo dai più, a partire dal padre e dal proprio fratello. Occorre alzare gli occhi verso la volta giottesca della basilica inferiore di Assisi per comprendere i risvolti dell’amore sponsale di Francesco verso Madonna Povertà: è Cristo in persona che li unisce in matrimonio, non l’istituzione ecclesiastica, ma dei ragazzini, che assistono alla scena, lanciano delle pietre alla sposa, le aizzano contro i cani, la minacciano con dei bastoni. La sposa dalla veste lacera, evidentemente, “non piace”, perché non rientra nel novero delle più belle donne della città. Francesco, però, la sceglie e la sposa, riconoscendo in lei un’assoluta grazia che sfugge ai suoi coetanei e ai suoi concittadini che assistono dubbiosi e sbigottiti.

 

 

Gli uomini di cultura, quasi tutti ecclesiastici, contemporanei di Francesco e che assisteranno alla diffusione di questo nuovo Ordine religioso costituito principalmente da laici, saranno quelli che meno comprenderanno la scelta di Francesco e dei suoi seguaci, tanto che san Bonaventura, chierico, teologo, cardinale e, dopo la morte, santo e dottore della Chiesa, si dovette preoccupare di “clericalizzare” la figura del povero e illetterato Francesco, un uomo di commercio e di armi che sapeva poco o nulla di Diritto Canonico, ma che ben conosceva le regole dell’amore, quelle contenute in massimo grado nel Vangelo ma che aveva, in qualche misura, già in gioventù appreso dalla letteratura “laica” dell’amor cortese e dell’ideale cavalleresco di accorrere in soccorso dei deboli e degli indifesi. Anche se laica, infatti, la letteratura cortese dell’epoca rimane intrisa degli ideali cristiani. Lo stesso ciclo arturiano rimanda e ricalca la comunità apostolica: il cenacolo di re Artù imitava quello di Gerusalemme e lo stesso Francesco per primo intravedeva nei paladini di Artù il gruppo degli apostoli attorno al loro re, Cristo Signore.