La buona battaglia

Non tirarsi indietro e non ritenere preziosa la propria vita e la propria reputazione, obbedendo a Dio e non ponendo impedimento allo Spirito Santo, sono le condizioni per cui la Parola di Dio è cresciuta, si è diffusa e ci ha raggiunto nel nostro tempo. Condizioni valide ancora oggi per chi è chiamato a combattere la buona battaglia della Nuova Evangelizzazione.

La liturgia del Tempo di Pasqua fa ascoltare nelle letture della Messa, dal libro degli Atti degli apostoli, alcuni capitoli interessanti e drammatici della sviluppo della Chiesa nascente. Nella Chiesa in forte espansione a motivo della testimonianza e dell’evangelizzazione da parte degli apostoli ma anche delle singole comunità e fedeli, così come narrato da Luca nei primi capitoli degli Atti, sono nate forti preoccupazioni riguardo l’evangelizzazione dei pagani e il modo di accoglierli nella Chiesa. La Chiesa, nata in ambito giudaico, concepisce sé stessa come una sorta di “setta” all’interno dello stesso giudaismo, chiamata a convertire i discendenti di Abramo alla fede in Gesù, Cristo e Signore. Pertanto gli apostoli, che sono nati e cresciuti nella mentalità nazional-religiosa del giudaismo e nonostante tutti gli insegnamenti del Maestro, non si sognano affatto di annunciare di propria iniziativa il Vangelo ai pagani. Dovrà, dunque, essere il Signore stesso a prendere l’iniziativa, spingendo Pietro a compiere un atto che lo stesso capo della Chiesa fa difficoltà a comprendere appieno. Così, mentre si trova a Giaffa, verrà convocato presso la sua casa da un pagano di Cesarea, il centurione Cornelio, per poter ascoltare il rinomato annuncio dalla stessa bocca del suo paladino. Il suo discorso di Pietro è quanto di più contraddittorio possa esserci rispetto al grande mandato (cfr Mt 28,19-20) ricevuto dal Cristo di annunciare il Vangelo a tutti i popoli: …[Gesù] ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio (At 10,42).

Pietro dice “al popolo”, intendendo il popolo di Dio, Israele, e non “a tutti i popoli”! Ma «Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse: “Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?”. E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo» (At 10,44-48).

Di questo atto, per cui per la prima volta i pagani entrano a far parte della comunità dei credenti, il capo della Chiesa sarà chiamato, con toni drammatici, a renderne conto all’assemblea apostolica. Così Luca ci riferisce l’accaduto: «Gli apostoli e i fratelli che stavano in Giudea vennero a sapere che anche i pagani avevano accolto la parola di Dio. E, quando Pietro salì a Gerusalemme, i fedeli circoncisi lo rimproveravano dicendo: “Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!”» (At 11,1-3). Essi che sanno bene quale era il mandato ricevuto dal Cristo, non osano rimproverare Pietro sul terreno “minato” dell’evangelizzazione, ma lo giudicano/condannano su un altro piano, quello dell’osservanza della Legge mosaica, degli usi tradizionali, del “si è sempre fatto così”, del non pensare alle cose che ci appartengono e ci contraddistinguono, dell’aver agito senza permesso…: Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!

Gesù aveva detto che c’è più gioia in cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione (Lc 15,7), eppure in questi “apostoli e fratelli” non c’è alcuna gioia, anzi: non c’è curiosità, non c’è desiderio di ascolto, di dialogo e confronto, ma solo il rimprovero per non aver chiesto il permesso, per aver fatto qualcosa di non già approvato e codificato da tutti… Pietro viene così costretto a rendicontare tutto con ordine, ma conclude dicendo: Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi, per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio? (At 11,17).

Pietro, che tante volte, con il suo cuore di pietra e la sua testa cocciuta, aveva sperimentato il fallimento per la sua infedeltà al Signore, dopo la risurrezione del Cristo, memore della lezione, aveva fatto dell’obbedienza a Dio il suo programma di vita. Già una prima volta, di fronte al sinedrio che voleva impedirgli di predicare e operare nel nome di Gesù, Pietro aveva detto: “Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (At 4,19-20). Così pure una seconda volta: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” (At 5,29). Ora, di fronte al “sinedrio” cristiano, costretto a rendere conto del suo operato nel nome di Cristo, non esiterà a riconfermare la sua obbedienza a Dio: chi ero io per porre impedimento a Dio?

«All’udire questo si calmarono e cominciarono a glorificare Dio» (At 11,18), ma è solo una gioia apparente e, soprattutto, momentanea. Ben venga che i pagani diventino cristiani, ma occorre certamente inquadrarli, metterli in riga, assoggettarli a quella mentalità che finora ha contraddistinto il gruppo: insieme alla novità del Vangelo dovranno obbedire agli usi e costumi – vecchi e superati – dei padri, della tradizione…! Non saranno di certo gli “ultimi arrivati” a doverci insegnare cosa è giusto e cosa non lo è, cosa è utile e cosa è superfluo, ma, soprattutto, non permetteremo loro di minare la nostra identità, frutto di una tradizione millenaria che affonda le sue radici nella fede di Abramo…! Non basta, perciò, la fede in Cristo per essere e dirsi cristiani, ma occorrono la circoncisione, l’osservanza della Legge mosaica, delle prescrizioni riguardo alla purezza dei rapporti con gli altri, dei cibi, ecc. La fede può certamente salvare, ma ciò che conta è l’identità elitaria del gruppo.

E così, l’annuncio del Vangelo ai pagani che doveva essere una vera e propria condivisione del dono gratuito di Dio per portare gli uomini a Lui, lo si vuol far diventare un mezzo, da vendere a caro prezzo, per portare gli uomini al gruppo.

Chi ne farà maggiormente le spese di questa mentalità chiusa e legalistica sarà l’apostolo Paolo che si vedrà costretto, ben presto, a rendere conto all’assemblea apostolica del suo peculiare rapporto con i pagani verso i quali, insieme a Barnaba, aveva annunciato con grande libertà ed efficacia il Vangelo (cfr At 13-14). «Ora alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: “Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati”. Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione». (At 15,1-2)

È il primo Concilio della storia della Chiesa nel quale, grazie all’opera di discernimento dello Spirito Santo, si sancisce la piena libertà da parte dei pagani riguardo alla Legge di Mosé, non imponendo loro, da parte della Chiesa, altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime (At 15,28-29).

Il lupo, però, perde il pelo ma non il vizio: nonostante la decisione conciliare di fatto rappresenti il “via libera” all’evangelizzazione dei pagani e alla loro piena libertà rispetto alle tradizioni, usi e costumi giudaici, Paolo sarà continuamente ostacolato, calunniato e amareggiato dalla fazione dei giudeo-cristiani i quali formalmente approvano la decisione ufficiale, ma nei fatti seminano discredito nei confronti di Paolo e confusione nei fedeli di quelle comunità costituite dall’apostolo in prevalenza da ex-pagani. Lo stesso Pietro, capo della Chiesa e che quindi avrebbe dovuto farsi primo garante delle decisioni conciliari, si renderà invece ipocritamente complice di questo movimento anti-paolino. Sarà lo stesso Paolo a descrivere l’episodio nella sua lettera ai Galati (2,11-14): «Quando Cefa venne ad Antiòchia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma, dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, tanto che pure Bàrnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ma quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: “Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?”».

Paolo è consapevole della sua personale vocazione e non si lascerà in alcun modo distrarre da quella missione, gravida di sofferenze, che aveva ricevuto anni prima sulla via di Damasco: «egli è lo strumento che ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai figli d’Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,15-16).

Ostacolato dai giudei-cristiani, messo in difficoltà da Pietro che non vuole scontentare nessuno, tradito anche dall’amico e compagno di missione Barnaba, avrebbe avuto, insieme a questi, tanti altri motivi per dedicarsi a salvaguardare personalmente e far crescere le sue amate comunità per le quali avrebbe dato la sua stessa vita (cfr 1Ts 2,8). Invece, l’apostolo delle genti, più coerentemente di Pietro, si sottomette allo Spirito Santo e lascia persino le comunità da lui fondate e il medio-oriente per obbedire ad un disperato grido che lo raggiunge nel pieno della sua missione: Vieni in Macedonia e aiutaci! (At 16,9). Quello che sembra un abbandono è, invece, l’inizio dell’evangelizzazione dell’Europa a cui presto si sarebbe aggiunta la predicazione di Pietro e la testimonianza di molti giudeo-cristiani dal versante di Roma. Paolo, insieme ad alcuni discepoli provenienti dal paganesimo, tra cui Timoteo, lascia l’Asia Minore per inoltrarsi nel continente europeo, dove nasceranno, sia pure tra altre difficoltà, le comunità di Filippi, Tessalonica, Berea, Atene, Corinto…

Ai vescovi dell’Argentina riuniti in assemblea così ha scritto nel suo messaggio, datato 20 aprile 2013, Papa Francesco: «Una Chiesa che non esce fuori da se stessa, presto o tardi, si ammala nell’atmosfera viziata delle stanze in cui è rinchiusa. È anche vero che ad una Chiesa che esce le può accadere ciò che può accadere ad una persona quando va per strada: avere un incidente. Di fronte a questa alternativa, voglio dire francamente che io preferisco mille volte una Chiesa che ha sofferto un incidente che una Chiesa malata».

Ieri come oggi, i vari apostoli “delle genti”, gli apostoli della libertà evangelica, di una chiesa libera dai condizionamenti umani e dallo storico ingessamento istituzionale, subiscono “incidenti”. È naturale che ciò avvenga. Ogni apostolo di Cristo deve metterne in conto il rischio e saperlo affrontare: «Voi sapete come mi sono comportato con voi per tutto questo tempo, fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei; non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case… So soltanto che lo Spirito Santo, di città in città, mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo in nessun modo preziosa la mia vita, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di dare testimonianza al vangelo della grazia di Dio» (cfr At 20,18-24).

Non tirarsi indietro e non ritenere preziosa la propria vita e la propria reputazione, obbedendo a Dio e non ponendo impedimento allo Spirito Santo, sono le condizioni per cui la Parola di Dio è cresciuta, si è diffusa e ci ha raggiunto nel nostro tempo. Ancora oggi, nel contesto e nell’urgenza della Nuova Evangelizzazione, frenata in vari modi anche da certi ambienti ecclesiali – timorosi di perdere qualcosa del proprio “glorioso passato” che più non esiste assumendosi il rischio dell’uscire fuori dai propri recinti – nonché dalla cultura laicistica del mondo di oggi, occorre che ognuno si assuma personalmente le proprie responsabilità di fronte a Dio e agli uomini perché, con serena coscienza, al termine della propria corsa, ogni discepolo fedele possa presentarsi al padrone della messe ripetendo le parole dell’apostolo Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,7).

fra’ Saverio Benenati