Nove parole per nove giorni: Povertà

Piccola novena in preparazione alla solennità di San Francesco – 5

 

 

Forse ciò che nell’immaginario collettivo caratterizza maggiormente i francescani, particolarmente i frati, è la loro povertà. Eppure, quante errate interpretazioni si sono date nel passato e ancora oggi si danno a questa cosiddetta “virtù”.

Francesco, proprio all’inizio della sua Regola non bollata, ci offre due elementi che non lasciano spazio a libere interpretazioni. Innanzi tutto non scrive povertà, ma “senza nulla di proprio” e, congiuntamente, che questo è, insieme all’obbedienza e alla castità, il modo in cui occorre vivere il Vangelo, regola e vita dei frati.

Il “senza nulla di proprio” è un’espressione che descrive meglio il senso della povertà evangelica. Indica innanzi tutto una scelta: non si è poveri perché non si ha nulla di materiale, ma si è poveri perché si è scelto di non possedere, non solo le cose materiali, ma anche sé stessi, la propria volontà, le persone, i luoghi, etc.

La povertà, prima di essere una questione di cose, è una questione di cuore. Si può essere poveri di cose, ma attaccati alle proprie idee, ai propri progetti, agli affetti vissuti in maniera possessiva, e così via. Solo un “povero in spirito” è capace anche di vivere con distacco le relazioni, rispetto a sé stesso, agli altri, alle cose e ai beni materiali. Non si tratta di avere o non avere, ma da chi o che cosa facciamo dipendere la nostra vita.

Vivere il Vangelo “senza nulla di proprio”, allora, significa consegnare volontariamente la propria vita nelle mani di Dio, facendola dipendere unicamente da Lui e lasciando che sia Lui a condurla, a riempirla o svuotarla, a innalzarla o abbassarla, secondo i suoi imperscrutabili progetti. E ciò esige una fiducia sconfinata in Dio, alla pari del Figlio di Dio che da ricco che era si fece povero per noi (cfr 2Cor 8,9), fino a consegnarsi totalmente nelle mani degli uomini come l’ultimo dei servi e quasi fosse un malfattore (cfr Fil 2,6-8).

Il “senza nulla di proprio” parte, al pari dell’obbedienza e della castità, dalla consapevolezza di essere figli di Dio, che la nostra vita, tutto ciò che siamo e tutto ciò che abbiamo – gli altri e le cose – sono dono di Dio, a Lui appartengono e a Lui dobbiamo restituirli. È una questione di fede-fiducia in Dio che è nostro Padre.

Vivere il Vangelo “senza nulla di proprio” per Francesco equivale a voler vivere di Gesù e del suo Vangelo. Tutto il resto è relativo e funzionale a tale obiettivo, altrimenti ne diventa un ostacolo. Vivere il Vangelo “senza nulla di proprio” comporta allora un atto di consegna di sé stessi e un atto di restituzione delle cose materiali a Colui che, pur essendo il Signore dell’universo, si identifica con l’affamato, l’assetato, l’ignudo, il forestiero, l’ammalato, il carcerato, l’escluso, l’abbandonato…