75 anni fa moriva ad Auschwitz p. Massimiliano Kolbe. In occasione della visita a Cracovia per la GMG, Papa Francesco ha pregato nella cella della fame in cui fu rinchiuso il santo martire.
Il 14 agosto del 1941, nel campo di sterminio di Auschwitz, moriva p. Massimiliano Maria Kolbe, frate minore conventuale. Nella sua recente visita in occasione della GMG, Papa Francesco ha sostato in preghiera nella cella della fame in cui fu rinchiuso e morì il santo martire.
Cosa ha da dire padre Kolbe alle donne e agli uomini della nostra società liquida nel 75.mo anniversario della sua morte martiriale? Cosa ha da dire alla Chiesa di papa Francesco il francescano conventuale polacco che ha speso la sua vita donandosi, giorno dopo giorno, senza ritorno?
Padre Kolbe dal 1930, anno di nascita della missione in terra giapponese, sceglieva la “Chiesa in uscita” come paradigma della sua lungimirante azione apostolica. In verità, sotto lo slogan “Chiesa in uscita” poteva già delinearsi tutta la sua tensione missionaria, proiettata ad aggiornare il vangelo della comunicazione verso mondi nuovi ancora lontani dal centro della cristianità che aveva formato spiritualmente e culturalmente il giovane Kolbe. L’anno 1927 segnava non solo la data di fondazione della Niepokalanów polacca, ma anche l’inizio di una nuova stagione che metteva al primo posto l’urgenza dall’“andare verso” e dell’“andare oltre”, come era suo stile, confidando nella provvidenza di Dio Padre e della Immacolata Madre.
“Chiesa in uscita” vuol dire Chiesa missionaria, Chiesa che guarda ai lontani, che si fa popolo, azione, collaborazione, solidarietà, comunione. In Polonia sin dal 1920, e in Giappone dal 1930 al 1936, padre Kolbe correva dietro a queste divine ispirazioni missionarie, abbattendo muri e creando ponti come faceva con i suoi primi collaboratori buddisti in Giappone e con i fratelli ebrei nel campo di concentramento di Auschwitz. Kolbe guardava con simpatia ad un mondo globalizzato. Il mondo del suo tempo era ideologicamente diviso e ferito: est-ovest; comunismo e socialdemocrazia; nord- sud progresso e povertà dei popoli. Solo all’interno di una corale azione missionaria era possibile dare un volto nuovo ai popoli dell’Asia e dell’Africa che erano in attesa del loro riscatto politico, sociale e culturale. In terra giapponese, gli bastavano solo sei anni per dare al mondo religioso missionario quei segnali nuovi che aprivano orizzonti e frontiere verso tematiche che il Concilio vaticano II individuava e incarnava nella dinamica ecclesiale del secolo breve.
Padre Kolbe è stato il pioniere della Chiesa del dialogo. La sua proposta editoriale in Polonia come in Giappone poneva al centro la proclamazione delle verità di Dio e delle verità sull’uomo. Dio–uomo; uomo–Dio erano il binomio della sua parola scritta e parlata. Erano i due costanti punti di rifermento della sua missione francescana scalza ed itinerante. Per 21 anni – dal 1920 al 1941– inizio e fine della sua vicenda umana e religiosa – dava vita a progetti editoriali e a pubblicazioni inimmaginabili dal punto di vista economico-organizzativo, ma possibili e realizzabili solo se attratti dall’idea della consacrazione quotidiana alla Vergine Immacolata, cuore di tutta la sua attività apostolica, missionaria e mariana.
Padre Kolbe è stato il Francesco povero del XX secolo. Ha posto al centro di tutta la sua attività evangelizzatrice il voto di povertà. Chiesa povera, comunità francescana conventuale povera, vita religiosa povera di ogni frate che segue madonna povertà. E al prelato che si scandalizzava per le costose macchine che stampavano riviste, opuscoli e libri nelle due Niepokalanów, rispondeva: “Se san Francesco tornasse a far visita ai suoi frati rimarrebbe molto contento di loro. Lui stesso si sarebbe rimboccato le maniche perché questo lavoro povero e disinteressato è per la gloria di Dio e per il bene delle anime”.
Chiesa in uscita, Chiesa in dialogo, Chiesa povera: questa è la lezione kolbiana che continua ancora oggi ad entusiasmare le giovani generazione che si mettono alla sua sequela per propagandare nel suo nome il vangelo di Gesù di Nazareth, incarnato da Francesco d’Assisi. Alla nostra società liquida, inoltre, padre Kolbe ripropone l’attualità del suo gesto martiriale che continua in modi e circostanze diverse nelle giovani comunità civili e religiosi dell’Asia e dell’Africa: ”Donarsi per amore …”. Ma è soprattutto la frase-sintesi della sua vita di apostolo a turbare il nostro sonno feriale: “Solo l’amore crea!”. L’odio che continua ad uccidere a Parigi come a Bruxelles, a Istanbul come a Dacca, a Bagdad come a Dallas, porta ad un vicolo cieco, porta pur sempre alla morte individuale e collettiva. Cristiani, fratelli musulmani e fratelli ebrei insieme devono essere fedeli a questo impegno e lavorare per una nuova società multietnica, multirazziale e multiculturale, perché , e la storia di ieri lo insegna ancora oggi: “Solo l’amore crea”.
[FONTE: Gianfranco Grieco, OFM Conv. in seraphicum.org]
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