Quando si parla di evangelizzazione il cuore allarga i confini sino a raggiungere i Paesi più poveri e lontani. E se, per una volta, la nostra attenzione si concentrasse sulla terra di missione a noi più vicina e urgente, e cioè la nostra stessa vita?
Quando si parla di evangelizzazione il cuore allarga i confini sino a raggiungere i Paesi più poveri e lontani. E se, per una volta, la nostra attenzione si concentrasse sulla terra di missione a noi più vicina e urgente e cioè la nostra stessa vita? Spesso, infatti, dimentichiamo che il primo dovere è migliorare noi stessi. Se non ci prendiamo cura con amore della nostra anima, se non ci impegniamo nel cammino di santità personale, se non siamo uniti al Signore come i tralci alla vite, cosa possiamo dare ai fratelli? Solo scampoli di tempo…
Si potrebbe obiettare che Gesù ha instancabilmente predicato, viaggiato, guarito. È vero, Gesù è stato il primo evangelizzatore, come ha detto Paolo VI, ma prima di tutto ha pregato, trascorrendo anche intere notti in profondo dialogo col Padre. E ci ha chiesto di “pregare e vegliare” con lui (cfr Matteo 26,41). Solo la preghiera ci aiuta a uscire davvero da noi stessi e dalla tentazione di ripiegarci su noi stessi per costruirci un mondo che inizi e finisca con noi.
La prima evangelizzazione può aver luogo attraverso la bellezza della liturgia, che è “culmine e fonte della vita cristiana” (Sacrosanctum Concilium n. 9). Tutto parte dall’Eucaristia e tutto lì torna, in un circolo virtuoso che unisce l’altare alle periferie del mondo. La nostra opera evangelizzatrice, perciò, inizia con una partecipazione alla liturgia più consapevole e innamorata.
La missione si incarna inevitabilmente nei limiti umani: non siamo super-eroi e questo lo sperimentiamo quotidianamente. Quali tentazioni e quali ostacoli si frappongono fra noi e la missione secondo il cuore di Dio?
Una delle difficoltà maggiori che incontriamo nel nostro impegno di evangelizzazione è quella di sentirci impiegati part-time: dedichiamo al Signore l’oretta della Messa domenicale e ai fratelli quel paio di ore di volontariato settimanale, ma… la vita è un’altra cosa! Al lavoro, in famiglia, in fila all’ufficio postale, in automobile, siamo come tutti gli altri. Don Tonino Bello scriveva che noi cristiani siamo “servi inutili a tempo pieno”: è vero, la missione deve diventare il nostro stile di vita, la carità la nostra regola.
Un altro ostacolo in cui inciampiamo spesso è la tentazione di “attaccare” il cuore a un compito che svolgiamo, a un ruolo, a un’attività, dimenticando che si tratta di un servizio, non dell’esercizio di un potere. Così facendo perdiamo di vista le giuste motivazioni e, quando non siamo più sintonizzati sul cuore di Dio, anche l’attività più bella diventa fonte di tristezza, di insoddisfazione, di ansia, di rivalità. “Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato” (1Cor 9,17).
“Non lasciamoci rubare la speranza!”, esorta papa Francesco nella Evangelii Gaudium. Infatti, una delle tentazioni sempre in agguato è costituita dal pessimismo, dalla lamentela, dalla critica distruttiva. Troppo spesso dimentichiamo che le difficoltà possono essere lette anche come sfide per crescere. Il simbolo cristiano per eccellenza è la croce, che per il resto del mondo è un chiaro segno di sconfitta: noi sappiamo che il male non ha l’ultima parola. “Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33).
Dobbiamo anche fare attenzione al rischio di scendere a compromessi con la mentalità del mondo, edulcorando il Vangelo e costruendoci un Dio a nostra immagine e somiglianza: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2).
Quante volte, poi, soffriamo della sindrome da fratello maggiore della parabola del figliol prodigo (cfr. Lc 15,11-32): siamo nella casa del Padre, nella sua Chiesa, ma non ci sentiamo “a casa”. E i sintomi sono i seguenti: il nostro sguardo non è limpido e il nostro cuore non è accogliente, siamo sospettosi, invidiosi, gelosi… Una vera e profonda relazione con Dio richiede l’impegno nella costruzione di relazioni autentiche con gli altri: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). Eppure, il rischio della chiusura, dell’autoreferenzialità, della frammentazione e della mancanza di comunione tra le persone e tra le varie realtà ecclesiali è molto forte.
[Fonte: Aleteia.org]