Nelle parrocchie ci si sforza tanto di iniziare alla fede i fanciulli e gli adolescenti, ma poco ci si preoccupa del dopo, dell’educazione alla vita buona del Vangelo, proprio quando i giovani, letteralmente, prendono “la partenza”!
Una delle lamentele più comuni che ho sentito nel corso degli anni dai responsabili dei gruppi giovanili e dai leader delle Porziuncole, suona più o meno così: “Mi piace molto quello che sto facendo, ma non mi sento sostenuto/a dalla parrocchia. A volte è una vera e propria lotta”. Se si è da molto tempo in parrocchia, è molto probabile che si siano accumulate delle difficoltà o dei veri e propri conflitti.
Di recente, proprio a motivo del carattere espansivo del Progetto Discepoli, mi arrivano tante perplessità sulla volontà dei sacerdoti di lavorare per e con i giovani. Un giovane, per esempio, ben conosciuto nella propria parrocchia per l’assiduità alla Messa domenicale e ad altri appuntamenti parrocchiali, proprio perché da anni responsabile e guida di un ben nutrito gruppo in un’altra zona della città, si è proposto al proprio parroco per avviare un gruppo giovanile, visto che in parrocchia non ce ne sono. La risposta è stata che, non conoscendolo (ma lo conosce abbastanza bene!), piuttosto che affidargli il compito di mettere su un gruppo giovanile, sarebbe stato meglio che collaborasse in parrocchia facendo il catechista per la Cresima.
Giustamente, il giovane in questione, si è chiesto come sia possibile che “uno sconosciuto” non sia buono per radunare semplicemente dei giovani per avviare un gruppo giovanile parrocchiale e, viceversa, lo sia per preparare gli adolescenti al sacramento della maturità cristiana…
Di fronte a tali paradossi, risulta evidente quanto abbiano ragione i vescovi italiani quando parlano di “emergenza educativa”. Nelle parrocchie ci si sforza tanto – e giustamente! – di iniziare alla fede i fanciulli e gli adolescenti, ma poco ci si preoccupa del dopo, dell’educazione alla vita buona del Vangelo, proprio quando i giovani, letteralmente, prendono “la partenza”! Talvolta sembra che tutta la vita pastorale di una comunità cristiana si risolva nell’amministrare i sacramenti, a prescindere da quanto questi incidano sulla vita personale, familiare, sociale, economica, politica… del fedele, giovane o adulto che sia, senza, perciò quella continuità di formazione che, con il Concilio Vaticano II, definiamo “permanente”.
Così accade che alla nostra Segreteria arrivino e-mail e telefonate di genitori preoccupati per i propri figli che hanno intrapreso delle “brutte strade” nella totale indifferenza della comunità ecclesiale locale, troppo presa dalla catechesi e poco attenta a quanto accade ai giovani che bivaccano attorno alle mura della chiesa parrocchiale.
Talvolta, però, il problema non risiede tanto nel fatto che non ci sia una pastorale e dei gruppi giovanili nell’ambito della comunità locale. Il problema risiede, invece, nella non volontà dei gruppi giovanili esistenti ad aprirsi all’esterno. Si concretizza nei fatti la tentazione di Pietro sul monte Tabor di “piantare le tende”, chiudersi al mondo circostante, problematico ed ostile.
Cosa si potrebbe fare per contribuire a risolvere questo problema annoso che ha portato la Chiesa italiana a parlare di “emergenza” e “sfida” educativa? Innanzi tutto, dobbiamo essere sinceri nel constatare che l’emergenza e la sfida riguardano tutte le agenzie educative, a cominciare dalla famiglia e dalla scuola. Ma, proprio perché male comune, non può esonerare le parrocchie e i singoli fedeli dal soffermarsi sulla questione e valutare se non sia il caso di rispondere, in qualche misura e secondo le proprie capacità e risorse, alle richieste di giovani che si vogliono spendere per gli altri giovani e al grido soffocato di genitori preoccupati ed inermi.
Diceva San Giovanni Bosco che i giovani appartengono a chi arriva prima, intendendo con questa affermazione che i giovani si lasciano sedurre e seguono chi si propone loro come modello e guida e se ad arrivare prima sono i “cattivi maestri” sarà poi dura sottrarli ad essi.
Pertanto, occorre che nelle nostre comunità e città si formino giovani leader (= guide) capaci di proporsi come modelli e giuda per gli altri giovani, capaci, cioè, di condurre a Cristo e alla Chiesa, con una testimonianza coerente di vita cristiana. Solo dei giovani possono farlo perché sono essi che condividono con i coetanei le strade, la scuola o l’università, i pub, le spiagge, i muretti… Perciò, mentre è importante che all’interno delle mura di una chiesa ci sia una comunità impegnata nella formazione catechetica dei fanciulli come degli adulti, nell’amministrazione dei sacramenti, ecc., allo stesso tempo è altrettanto importante che dei giovani si dedichino, come buoni samaritani, a percorrere le vie che portano a Gerico, lontano dalla Città di Dio, per raccogliere amorevolmente coloro che quotidianamente vengono battuti quasi mortalmente dai briganti di un mondo secolarizzato e scristianizzato.
In una parola, è importante avere una visione unificata del ministero parrocchiale, dove il lavoro ad-intra (cura pastorale) non può e non deve escludere quello ad-extra (nuova evangelizzazione).
Ma come può un giovane che vuole spendersi nella nuova evangelizzazione portare la propria comunità ad avere questa visione unificata? Che cosa si può fare per contribuire ad un cambiamento di mentalità, prendendo in considerazione tutte le sfaccettature della sfida educativa?
Ecco alcune risposte, che forse possono spiazzare, ma che alla lunga producono l’effetto auspicato:
- migliorare la comunicazione con gli altri operatori pastorali parrocchiali;
- avere e saper comunicare una visione unificata;
- saper condividere e pregare insieme a tutta la comunità;
- evitare gli atteggiamenti concorrenziali;
- servire radicalmente.
Di tutte queste risposte – ma ne avremmo potuto aggiungere altre – l’ultima forse è la più fondamentale. Il segreto sta tutto lì, nel servire senza “se” e senza “ma”. Non c’è modo migliore per ottimizzare le relazioni e la comprensione reciproca del mettersi al servizio della comunità. Dopo tutto, non è quanto ha fatto Gesù con i suoi discepoli, lavando loro i piedi e chiedendoci di fare altrettanto tra noi?
Qualcuno, di fronte a questa proposta, ritiene che, così facendo, si resterà impantanati nelle attività pastorali ad-intra e sfumerà l’anelito alla nuova evangelizzazione. Forse che Gesù si è lasciato imbrigliare dalle preoccupazioni di Pietro che lo voleva ostacolare nel suo anelito alla salvezza mediante la passione e la croce? Il servire di Gesù li preparò e li aprì alla fiducia a quanto stava per realizzare con la sua passione. Così un giovane che vuole evangelizzare, servendo con umiltà la propria comunità ecclesiale, la aprirà alla fiducia e alla stima per quanto vuole compiere di buono per coloro che sono fuori dal “cenacolo”. D’altronde, evangelizzare con il Progetto Discepoli, non esclude il servire in comunità e viceversa. Il condurre giovani “lontani” alla comunità non esclude la collaborazione con gli altri ministeri parrocchiali. Saranno il tempo e il buon esempio a convincere la comunità e/o il parroco ad aprirsi verso una visione unificata e a concretizzarla con le iniziative più opportune per una pastorale giovanile vera ed efficace.
Iniziamo, dunque, a servire la comunità, prendendo ogni giorno con noi catino e asciugamano. Non è forse quello che ha fatto ottocento anni fa Francesco d’Assisi, contribuendo al cambiamento della Chiesa non combattendola e picconandola dall’esterno, bensì collaborandola e servendola con umiltà e minorità dall’interno?
Il Signore vi benedica.
fra’ Saverio Benenati