Chiamati alla parresia

Il Patriarca di Gerusalemme e Cardinale Pizzaballa ci offre uno sguardo “dall’interno” sul ruolo dei cristiani in una terra insanguinata da odio, disprezzo e sentimenti di vendetta, che comunque ci coinvolge.

 

Mons. Pierbattista Pizzaballa, francescano, Patriarca di Gerusalemme e Cardinale dopo essere stato per anni Custode di Terrasanta, è stato invitato ad aprire il primo giorno del recente Meeting di Rimini (20-25 Agosto), rispondendo ad alcune domande che stanno interrogando le comunità cristiane occidentali, spettatrici attraverso i media di un conflitto sanguinoso di cui spesso si sconoscono ragioni, dinamiche e, soprattutto, le conseguenze a lungo termine.

 

 

I cristiani in Terra Santa sono veramente irrilevanti (sono solo il 3% della popolazione palestinese ed ebraica insieme) e, loro malgrado, si trovano coinvolti  in un conflitto che lacera le relazioni ma anche il cuore. In questo momento, ha osservato il Patriarca, «ci sono cristiani a Gaza sotto le bombe israeliane, e ci sono cristiani che fanno il servizio militare nell’esercito israeliano». Vengono così messi in gioco nello stesso tempo l’appartenenza alla comunità umana, a un popolo contrapposto all’altro, e l’appartenenza a Cristo che dovrebbe offrire uno sguardo diverso, più vasto. «Oggi i cristiani in Terra Santa – continua Mons. Pizzaballa –sono come i discepoli presso Cristo nel Getsemani: c’erano quelli che dormivano (oggi parlerei di un devozionismo sofisticato), quelli che fuggivano, cioè quelli che vedevano cosa succedeva ma non volevano farci i conti (accade anche qua oggi) e quelli che mettono mano alla spada, cioè che vogliono partecipare alla lotta, fare politica attiva. La scelta di Gesù è stata quella di consegnarsi. Anche per noi oggi si tratta di dare la vita, di mettere la nostra vita nelle mani di Dio. Alla mia comunità dico sempre che noi non abbiamo tutte le risposte per la situazione che stiamo vivendo, ma abbiamo l’indirizzo a cui spedire le domande: Dio. Rivolgiamo le nostre domande a Lui, Lui che dà senso a tutto».

 

 

Ruolo dei cristiani e dei loro leader
Alla domanda sul possibile ruolo di mediazione che la Chiesa può offrire in questo momento, il Cardinale è schietto: «Nessuno di coloro che vivono e si scontrano sul posto è in attesa che la Chiesa risolva i problemi del conflitto. Politicamente siamo inincidenti. Si tratta di stare lì senza la pretesa di riuscire incidenti, ma per dire la nostra parola ed essere presenti. La domanda che lì da noi viene posta più spesso è: “dove eri tu quando…?”. Dobbiamo poter rispondere: “ero qui, ero lì”. Siamo chiamati alla parresia, al parlar chiaro, ma senza diventare anche noi parte dello scontro». E le religioni nel loro insieme? La risposta è ancora più schietta e forse sconsolante: «Dopo il 7 ottobre il dialogo interreligioso è in crisi, non ci incontriamo più pubblicamente o ufficialmente, facciamo fatica anche a incontrarci ufficiosamente. In questi anni sono state fatte tante ottime cose, il documento di Abu Dhabi sulla fratellanza è bellissimo ma, se posso permettermi, dopo il 7 ottobre e dopo Gaza il dialogo interreligioso dovrà essere meno di élite e più delle realtà del territorio. I leader delle religioni dovrebbero aiutare le proprie comunità a non ripiegarsi su stesse e sulla loro esclusiva narrazione, ma a riconoscere l’altro da sé. Come diceva un rabbino, “nessuna religione è un’isola”: Ecco, oggi siamo tornati a essere isole».

 

 

Non è ancora il momento di parlare di perdono
Come conciliare il perdono, caratteristica del cristianesimo, e l’ingiustizia permanente e dilagante in quella terra, santa e martoriata? Mons. Pizzaballa, che ben conosce quanto è radicato l’odio tra le parti in conflitto, ha risposto distinguendo vari livelli: «Al livello della persona e del suo rapporto con Dio, perdono e giustizia sono praticamente sinonimi. Pensiamo al perdono di Gesù sulla croce ai suoi carnefici, ai martiri di tante epoche che hanno perdonato i loro stessi assassini. Ma le persone fanno parte di comunità, e al livello comunitario la questione diventa più complicata: ci sono di mezzo i valori della dignità e dell’uguaglianza di una comunità rispetto alle altre, e allora perdonare senza che l’aspetto comunitario venga messo a tema non è possibile».

«A questo riguardo», ha continuato il patriarca, «ci vogliono tempo, un processo di guarigione, il riconoscimento del male commesso e non solo di quello altrui, la verità. E tutto questo deve avvenire al livello delle comunità, come abbiamo visto fare in Sudafrica con la Commissione per la Verità e la Riconciliazione dopo la fine dell’apartheid. Il singolo si trova in una posizione insostenibile: se oggi un palestinese pratica il perdono personale nell’immediato, appare come uno che giustifica la continuazione della guerra; se non perdona, si ripiega nella recriminazione e nello spirito di vendetta. La comunità cristiana deve portare il tema del perdono nel dibattito sociale, ma non ora. Però quando verrà il momento, a guerra finita, dovremo farlo, perché è l’unica via per superare l’impasse».

 

 

Ci attende un processo faticosissimo
Il Patriarca di Gerusalemme, che da molto tempo vive e opera in Terra Santa e conosce i sentimenti della gente, è quasi sconsolato di fronte alla situazione attuale e alle sue prospettive future, ma certamente non disperato: «L’impatto che il 7 ottobre e la guerra di Gaza hanno avuto sulla gente del posto è unico. Per gli ebrei il 7 ottobre è un punto di non ritorno, perché lo stato di Israele è nato come oasi sicura per gli ebrei sopravvissuti all’Olocausto; per i palestinesi, ugualmente, quello che succede a Gaza è senza precedenti, perché non si erano mai contate tante vittime palestinesi in decine di anni di crisi sanguinose. Pertanto i sentimenti di odio, vendetta, sfiducia verso l’altro sono al culmine». Purtroppo, spiga il Cardinale, «l’incapacità di riconoscere l’esistenza l’uno dell’altro non è mai stata così radicale. Viene in mente l’Isaia della caduta di Babilonia: “Io, e nessun altro all’infuori di me” (Is 47,8). Il linguaggio del rifiuto reciproco è diventato un fatto quotidiano. La guerra finirà, in un modo o nell’altro, ma dissipare la sfiducia verso l’altro e il disprezzo profondo sarà faticosissimo».