VI Domenica di Pasqua – B

Siamo chiamati ad amare Dio, ma lo amiamo veramente solo quando gli permettiamo di amarci.

Dal Vangelo secondo Giovanni (15,9-17)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

 

 

 

Capita sovente che un’esperienza spiritualmente forte, come lo può essere l’appartenenza ad un gruppo ecclesiale, un ritiro spirituale piuttosto che una attività di evangelizzazione, venga assunto a modello e filtro dell’azione di Dio. Ciò è vero oggi come lo è stato in passato, prima per il popolo ebraico e poi anche per la Chiesa nascente. Israele, infatti, avendo sperimentato Dio nella liberazione dalla schiavitù e nel dono alla Legge che l’ha costituito popolo di Dio, riteneva che solo all’interno di questa comunità e nell’obbedienza alla Legge ci potesse essere un’esperienza autentica di Dio e della sua salvezza. Così anche la Chiesa degli inizi, pur consapevole della liberazione e della vita nuova in Cristo Gesù, riteneva che il modo autentico di fare esperienza della fede cristiana fosse quello di passare attraverso il filtro della tradizione ebraica. Dovrà essere lo Spirito santo a prendere l’iniziativa di allargare gli orizzonti della fede conducendo Pietro al battesimo dei pagani.

Si tratta, purtroppo, di un modo tutto umano di concepire l’esperienza di Dio: se una cosa è vera per me che ne ho fatto esperienza, deve necessariamente valere per tutti. Ed è così che gruppi ecclesiali, apparati liturgici, metodi e attività vengono assolutizzati facendoli diventare veicolo unico attraverso cui Dio agisce in favore dell’uomo.

Il Vangelo di oggi ci ricorda invece che non sono gli schemi e i metodi, le attività o l’appartenenza a un raggruppamento di persone, il pregare in un certo modo o il fare certe cose, che ci assicurano l’azione di Dio. Non sono queste cose né a salvarci né a sostenerci nella fede, ma unicamente la relazione con Dio. Tutto ciò che ci mette in relazione con Dio è buono, santo e giusto, ma sono solo strumenti che devono appunto favorire la relazione, prima personale e poi comunitaria, con Dio.

Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi… amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi. Chiaro l’insegnamento di Gesù: Dio Padre riversa il suo amore nel Figlio e il Figlio lo riversa in noi perché a nostra volta lo riversiamo nei fratelli e nelle sorelle che abbiamo accanto. Ciò che permette questa diffusione dell’Amore di Dio è la relazione d’amore prolungata nel tempo, esistenziale: Rimanete nel mio amore come io rimango nell’amore del Padre.

Cosa significa, dunque, questo rimanere nell’amore? Lo aveva illustrato bene Gesù stesso all’inizio di questo discorso: come il tralcio è unito alla vite (cfr Gv 15,1-8). Rimanere nell’amore significa restare attaccati a Gesù in atteggiamento di ricezione. Questo è il capovolgimento della nostra mentalità religiosa del “dover amare Dio”. Sì, siamo chiamati ad amare Dio, ma lo amiamo veramente solo quando gli permettiamo di amarci, quando ci apriamo al suo amore, quando ce ne dimostriamo assetati e restiamo attaccati a lui come un tralcio alla vite. Questa è la relazione fondamentale a cui Gesù ci richiama: restare uniti a lui perché solo attraverso di lui arriva a noi tutto l’amore del Padre.

Se abbiamo compreso questo, comprenderemo qual è il ruolo e il valore delle comunità cristiane, dei metodi, delle attività e di qualsiasi altra cosa che voglia definirsi cristiana: permettere e favorire tale relazione d’amore con Gesù. Se la comunità non mi conduce all’unione con Gesù, ma solo con sé stessa, al solo scopo di aumentare il numero dei suoi membri, non è una comunità di discepoli, ma un club. Se un’attività pastorale, caritativa o missionaria, non mi conduce alla relazione con Gesù, ad iniziarla o rafforzarla, è solo un’attività filantropica.

E così andiamo al punto che esprime meglio il significato della relazione con Gesù: l’amicizia. Dal testo sembrerebbe che Gesù metta una condizione alla sua relazione di amicizia: Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. In verità, Gesù sta dicendo qualcosa di molto vero e profondo, che cioè un’amicizia non si esprime nella sola simpatia reciproca, ma sul fare qualcosa di concreto per l’altro in maniera libera e spontanea. Perciò Gesù può chiamarci amici, può dire di averci scelti come suoi amici, perché, in maniera libera e gratuita, ha dato la sua vita per noi. E così, volendo parafrasare il suo discorso, continua: se dunque volete dimostrarvi miei amici, non pensate di dover fare chissà che cosa, di mettere su chissà quale castello di attività e di opere, mi basta che vi amiate tra voi come io vi ho amati, scambiandovi tutto l’amore del Padre che avete ricevuto da me, donandovi reciprocamente amore, totalmente. Se la misura del mio amore è stato amarvi senza misura, fino al dono della mia vita, allo stesso modo amatevi tra di voi, donandovi reciprocamente il mio amore, senza misura, totalmente.

 

 

Ecco, cari fratelli e sorelle, il senso del discorso di Gesù: se faccio esperienza dell’amore di Dio, lo ricevo, ma non lo condivido, ciò che ne rimane è un’amicizia a senso unico, mi taglio fuori da questa relazione. Stesso discorso se entrando in una comunità di fede in cui decine di fratelli e sorelle mi amano con l’amore di Cristo, non faccio scattare in me degli atti liberi e gratuiti di amicizia verso Cristo e i fratelli. Sarei come un tralcio che pur ricevendo la linfa dalla vite non produce frutto, dimostrandosi sterile, infecondo, utile solo – riprendendo l’immagine iniziale di questo cap. 15 del Vangelo di Giovanni – ad essere tagliato via per essere bruciato.

Il più delle volte non si riesce a corrispondere all’offerta di un’amicizia perché si è scottati da precedenti esperienze negative di tradimenti, sfruttamenti, falsità. Al contrario, talvolta siamo stati noi a far fallire belle possibili amicizie perché non ci siamo sentiti amati come avremmo voluto, secondo le nostre aspettative e bisogni affettivi e/o psicologici. Il sottofondo è sempre lo stesso, la sfiducia. Si dice di non credere all’amicizia perché non ci si è sentiti amati.
Caro fratello o sorella che leggi, tutti i fallimenti che hai potuto sperimentare, tutta la sofferenza che hai dovuto sopportare, con Gesù puoi lasciarteli alle spalle, perché lui ti ha amato per primo dando la sua stessa vita per te, senza alcuna riserva. Lui ama così e ti ha già amato così. Di lui ti puoi fidare, non hai da temere alcunché, poiché Gesù non è semplicemente un amico, Gesù è l’Amore! E chi trova l’Amore troverà allo stesso tempo anche tanti amici, tutti quelli che vorrà.

fra’ Saverio Benenati, ofm conv.