È tempo di lasciarsi prendere per mano da chi nel deserto della pandemia ha imparato a conoscere il Signore, la Generazione-Giosuè.
Il tempo che si è aperto nel febbraio del 2020 a buon diritto può essere definito storico. L’esperienza della pandemia sta provocando a catena situazioni nuove. È causa di dolore e morte in tutti i paesi della terra, aprendo di fatto anche il tempo della cura delle molte ferite.
Le conseguenze nella vita sociale, costretta al distanziamento e soprattutto all’isolamento, sono evidentissime con pesanti ricadute sull’economia e sul lavoro. La mascherina non è più un accessorio da turisti giapponesi che si difendono dallo smog. E non è ancora finita.
Il virus non ha lavorato soltanto nei corpi: ha scavato dentro le anime, i cuori, i sentimenti, le percezioni, il modo di pensare. Anche se non ne usciremo rinnovati positivamente (come qualcuno un po’ ingenuamente aveva immaginato), sicuramente ne usciremo diversi. Soprattutto perché è definitivamente caduto il mito dell’uomo invincibile, al riparo da tutto perché sotto l’ombrello della tecnologia e della scienza, immerso in un mercato economico che offre di tutto e subito.
C’è però uno spazio che rimane ancora misterioso: è quello della coscienza personale e collettiva. Le domande di senso continuano a bussare alla porta di tutti: il senso della vita, del dolore, della morte.
Ed è paradossale che proprio la Chiesa nelle sue diverse articolazioni sul territorio trovi notevoli difficoltà a comunicare le risposte che già conosce e che, fin dai tempi di Gesù, l’ha aiutata ad attraversare indenne ogni sorta di mare in tempesta. Finito il tempo del lockdown, le chiese sono rimaste pressoché semivuote.
Stiamo attraversando un deserto che obbliga la Chiesa a ripensarsi per tornare all’essenziale, al Vangelo sine glossa come direbbe san Francesco, ma anche alle persone, ai giovani. Quei giovani che hanno il coraggio di dirci che il re è nudo e che vanno ascoltati e accolti nel loro essere diretti.
La fuga delle nuove generazioni dalla vita ecclesiale, a cui la pandemia ha dato il colpo di grazia, è un segnale forte di come l’annuncio della fede deve ritrovare una sua conformazione a partire proprio dai giovani. Perché è anche vero che laddove ci sono giovani che hanno sperimentato un incontro personale con Gesù grazie al ministero di evangelizzazione esercitato da altri giovani, la vita ecclesiale, la comunione fraterna, l’azione evangelizzatrice e pastorale, non si sono mai fermate. Anzi, sono stati proprio questi giovani a intraprendere vie nuove di essere Chiesa, mai banali o tristi o persino ridicole come quel profluvio di messe trasmesse in diretta facebook durante i mesi più duri di lockdown.
Non sappiamo cosa ci riserva il domani, come saremo al termine di questo tempo di pandemia, ma sappiamo che oggi, proprio in questo tempo, ci sono giovani audaci che interrogano fortemente la Chiesa e la società, con la loro intraprendenza, con la loro fede, con la loro generosità nel servizio, nella carità, nel ministero di evangelizzazione e di formazione insieme ai loro coetanei.
È un tempo nuovo quello che abbiamo intrapreso dall’inizio della pandemia da Covid-19. Illudersi di poter spostare indietro le lancette del tempo, tornando a come prima della pandemia, è pura follia.
È tempo di lasciarsi prendere per mano dai giovani, da quella generazione che al pari del giovane Giosuè ha imparato proprio nel deserto a conoscere il Signore ed è pronta a ricevere dall’anziano Mosé la missione di introdurre il popolo di Dio nei territori oltre il deserto. È il tempo, per la Chiesa, senza pregiudizi o inutili resistenze, di aprirsi alla Generazione-G, la Generazione-Giosuè.
Come Giosuè, ha fatto esperienza del Signore nel deserto della pandemia e non ha mai abbandonato la chiesa e i suoi pastori; è piena di entusiasmo, di fiducia e di speranza nel Signore; è intraprendente, radicale, schietta come tutti i giovani, forse impulsiva e temeraria, ma ci mette la faccia in quello che fa; è green, cioè sensibile ai temi ambientali e alla cura della casa comune; snobba i salotti politici e i suoi giochetti, ma è attenta ai temi sociali e delle politiche occupazionali; è inesperto sotto molti aspetti e per sua natura, ma ha voglia di mettersi alla prova assumendosi nuove e più alte responsabilità nella chiesa e nella società. È una generazione che per gli studi universitari e i progetti Erasmus o anche per lavoro ha imparato prima delle generazioni passate a staccarsi da famiglia e amici per iniziare nuovi percorsi di vita in autonomia.
Poi Mosè chiamò Giosuè e gli disse alla presenza di tutto Israele: “Sii forte e fatti animo, perché tu condurrai questo popolo nella terra che il Signore giurò ai loro padri di darvi: tu gliene darai il possesso. Il Signore stesso cammina davanti a te. Egli sarà con te, non ti lascerà e non ti abbandonerà. Non temere e non perderti d’animo!” (Dt 31,7-8).
Oggi la Chiesa, come Mosé, è chiamata come mai prima d’ora a condividere con i giovani il bastone della sua guida se non vuole restare impantanata nelle sabbie del deserto. Non basta solamente ascoltarli come sta tentando di fare in questo tempo “sinodale” per poi discernere e decidere altrove e senza di essi. Deve dare loro fiducia, camminando insieme ad essi.
Non sappiamo ancora quando usciremo dal deserto della pandemia, ma conosciamo già chi potrà aiutare la Chiesa ad attraversare il Giordano che la separa dal nuovo inizio del post-pandemia. È tempo per la Generazione-G, già ora nel deserto di esprimere il meglio di sé, contraddicendo pregiudizi e stereotipi comuni sull’inaffidabilità delle nuove generazioni. Forse commetteranno degli errori dovuti all’inesperienza di camminare su terre sconosciute a chiunque, ma – parafrasando Papa Francesco – è preferibile una Chiesa incidentata, ma comunque audace, viva e in cammino, che paralizzata in una inerte attesa della morte. Buon cammino a tutti!