Il tempo dell’evangelii gaudium

A ciò che un solo giorno è troppo breve per celebrare, la Chiesa consacra cinquanta giorni, che sono l’estensione della gioia pasquale

Il Tempo di Pasqua dura cinquanta giorni, sette volte sette giorni, una settimana di settimane, con un domani. Il numero sette è un’immagine della pienezza (si pensi al racconto della creazione nel primo capitolo della Genesi), e l’unità che si aggiunge a questa pienezza moltiplicata apre su un aldilà. È così che il tempo di Pasqua, con la gioia prolungata del trionfo pasquale, è divenuto per i padri della Chiesa l’immagine dell’eternità e del raggiungimento del mistero del Cristo. Per Tertulliano, alla fine del secondo secolo, la cinquantina pasquale è il tempo della grande allegrezza durante il quale si celebra la fase gloriosa del mistero delle redenzione dopo la risurrezione del Cristo, fino all’effusione dello Spirito sui discepoli e su tutta la Chiesa nata dalla Passione del Cristo. Secondo sant’Ambrogio “I nostri avi ci hanno insegnato a celebrare i cinquanta giorni della Pentecoste come parte integrante della Pasqua”.
A ciò che un solo giorno è troppo breve per celebrare, la Chiesa consacra cinquanta giorni, che sono estensione della gioia pasquale; il digiuno è stato sempre bandito in questo periodo, anche dai più austeri degli asceti. I cinquanta giorni sono come una sola Domenica, Pasqua del Signore.

Due sono gli elementi importanti per vivere questa esperienza di gioia e di festa con Cristo. Innanzi tutto l’Ottava di Pasqua. Essa è costituita dagli otto giorni che seguono la Pasqua, essa stessa compresa.
L’usanza di ampliare la festa di Pasqua nei sette giorni seguenti proviene sicuramente dall’usanza ebraica della celebrazione degli Azzimi (Es 12,15.19 ecc.). Ma l’apparizione pasquale di Cristo all’ottavo giorno dalla risurrezione (Gv 20,26) ha certamente contribuito alla formazione dell’Ottava di Pasqua cristiana. La Chiesa, infatti, ha sempre considerato la settimana pasquale come un unico giorno di festa.
Sant’Agostino definisce la celebrazione dell’Ottava di Pasqua Ecclesiae consuetudo (consuetudine della Chiesa). Il settenario pasquale era dedicato soprattutto alla catechesi mistagogica rivolta a quanti avevano ricevuto il battesimo nella Veglia pasquale e le catechesi di Sant’Ambrogio ne sono una testimonianza. Ancora oggi il Rito ambrosiano prevede, per ogni giorno dell’Ottava, la messa per i battezzati con letture proprie.
L’espressione Ottava di Pasqua indica anche l’ultimo giorno dell’ottava detta anche Domenica in Albis (sottinteso depositis). Letteralmente è la Domenica in cui vengono deposte le vesti bianche; ciò perché nei primi secoli della Chiesa il battesimo era amministrato nella solenne Veglia Pasquale ed i battezzati indossavano una tunica bianca che portavano per tutta la settimana successiva, fino alla II Domenica dopo Pasqua.

Dal 2000, la seconda Domenica di Pasqua è detta anche “della Divina Misericordia” per l’istituzione in tale data da parte di Papa Giovanni Paolo II della Festa della Divina Misericordia. Per quanto sia importante e significativa tale festa, ciò non deve distogliere i fedeli, che hanno rinnovato le promesse battesimali nella notte di Pasqua, di approfondire durante l’ottava il significato del proprio battesimo come incontro con il Cristo Vivente e sui “luoghi” in cui tale incontro si prolunga: la Parola, l’Eucaristia, il dono dello Spirito Santo, la Chiesa-comunità missionaria… Non a caso per tutto il tempo di Pasqua la liturgia tralascia la parola profetica veterotestamentaria per soffermarsi a riflettere sugli effetti della Pasqua nei discepoli, facendoci leggere per intero gli Atti degli Apostoli che ci mettono a confronto con la missionarietà della Chiesa nata dalla Pasqua di Cristo.
Il Tempo di Pasqua, infatti, come abbiamo detto sopra, dura 50 giorni, numero simbolico per gustare tutta la pienezza del tempo (7 x 7+1= pienezza totale, perfezione massima) e della gioia. Tale numero è legato alla celebrazione ebraica della Pentecoste o Festa delle Capanne che il popolo eletto celebrava sette settimane dopo la Pasqua e in cui la Chiesa post-pasquale fece esperienza dell’effusione dello Spirito Santo.
Le tematiche a contrasto che la liturgia fa proprie in questi giorni e che ritornano in continuazione nella parola di Dio e nella liturgia sono: tenebre – luce, morire – risorgere, seme – pianta, tomba luogo di morte – mensa luogo di vita…; esse mettono in evidenza gli effetti sul credente della Risurrezione di Cristo e della propria risurrezione dalle acque del Battesimo.

Per approfondire il significato del tempo pasquale come tempo opportuno per far diventare “vita” la Pasqua, riportiamo qui sotto la catechesi di Benedetto XVI pronunciata nell’Udienza Generale del 27 Aprile 2011.

Cari fratelli e sorelle, in questi primi giorni del Tempo Pasquale, che si prolunga fino a Pentecoste, siamo ancora ricolmi della freschezza e della gioia nuova che le celebrazioni liturgiche hanno portato nei nostri cuori. Pertanto, oggi vorrei riflettere con voi brevemente sulla Pasqua, cuore del mistero cristiano. Tutto, infatti, prende avvio da qui: Cristo risorto dai morti è il fondamento della nostra fede. Dalla Pasqua si irradia, come da un centro luminoso, incandescente, tutta la liturgia della Chiesa, traendo da essa contenuto e significato. La celebrazione liturgica della morte e risurrezione di Cristo non è una semplice commemorazione di questo evento, ma è la sua attualizzazione nel mistero, per la vita di ogni cristiano e di ogni comunità ecclesiale, per la nostra vita. Infatti, la fede nel Cristo risorto trasforma l’esistenza, operando in noi una continua risurrezione, come scriveva san Paolo ai primi credenti: «Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità» (Ef  5, 8-9).

Come possiamo allora far diventare “vita” la Pasqua? Come può assumere una “forma” pasquale tutta la nostra esistenza interiore ed esteriore? Dobbiamo partire dalla comprensione autentica della risurrezione di Gesù: tale evento non è un semplice ritorno alla vita precedente, come lo fu per Lazzaro, per la figlia di Giairo o per il giovane di Nain, ma è qualcosa di completamente nuovo e diverso. La risurrezione di Cristo è l’approdo verso una vita non più sottomessa alla caducità del tempo, una vita immersa nell’eternità di Dio. Nella risurrezione di Gesù inizia una nuova condizione dell’essere uomini, che illumina e trasforma il nostro cammino di ogni giorno e apre un futuro qualitativamente diverso e nuovo per l’intera umanità. Per questo, san Paolo non solo lega in maniera inscindibile la risurrezione dei cristiani a quella di Gesù (cfr 1Cor 15,16.20), ma indica anche come si deve vivere il mistero pasquale nella quotidianità della nostra vita.

Nella Lettera ai Colossesi, egli dice: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo seduto alla destra di Dio, rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (3,1-2). A prima vista, leggendo questo testo, potrebbe sembrare che l’Apostolo intenda favorire il disprezzo delle realtà terrene, invitando cioè a dimenticarsi di questo mondo di sofferenze, di ingiustizie, di peccati, per vivere in anticipo in un paradiso celeste. Il pensiero del “cielo” sarebbe in tale caso una specie di alienazione. Ma, per cogliere il senso vero di queste affermazioni paoline, basta non separarle dal contesto. L’Apostolo precisa molto bene ciò che intende per «le cose di lassù», che il cristiano deve ricercare, e «le cose della terra», dalle quali deve guardarsi. Ecco anzitutto quali sono «le cose della terra» che bisogna evitare: «Fate morire – scrive san Paolo – ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria» (3,5-6). Far morire in noi il desiderio insaziabile di beni materiali, l’egoismo, radice di ogni peccato. Dunque, quando l’Apostolo invita i cristiani a distaccarsi con decisione dalle «cose della terra», vuole chiaramente far capire ciò che appartiene all’«uomo vecchio» di cui il cristiano deve spogliarsi, per rivestirsi di Cristo.

Come è stato chiaro nel dire quali sono le cose verso le quali non bisogna fissare il proprio cuore, con altrettanta chiarezza san Paolo ci indica quali sono le «cose di lassù», che il cristiano deve invece cercare e gustare. Esse riguardano ciò che appartiene all’«uomo nuovo», che si è rivestito di Cristo una volta per tutte nel Battesimo, ma che ha sempre bisogno di rinnovarsi «ad immagine di Colui che lo ha creato» (Col  3,10). Ecco come l’Apostolo delle Genti descrive queste «cose di lassù»: «Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri (…).  Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto» (Col 3,12-14). San Paolo è dunque ben lontano dall’invitare i cristiani, ciascuno di noi, ad evadere dal mondo nel quale Dio ci ha posti. È vero che noi siamo cittadini di un’altra «città», dove si trova la nostra vera patria, ma il cammino verso questa meta dobbiamo percorrerlo quotidianamente su questa terra. Partecipando fin d’ora alla vita del Cristo risorto dobbiamo vivere da uomini nuovi in questo mondo, nel cuore della città terrena.

E questa è la via non solo per trasformare noi stessi, ma per trasformare il mondo, per dare alla città terrena un volto nuovo che favorisca lo sviluppo dell’uomo e della società secondo la logica della solidarietà, della bontà, nel profondo rispetto della dignità propria di ciascuno. L’Apostolo ci ricorda quali sono le virtù che devono accompagnare la vita cristiana; al vertice c’è la carità, alla quale tutte le altre sono correlate come alla fonte e alla matrice. Essa riassume e compendia «le cose del cielo»: la carità che, con la fede e la speranza, rappresenta la grande regola di vita del cristiano e ne definisce la natura profonda.

La Pasqua, quindi, porta la novità di un passaggio profondo e totale da una vita soggetta alla schiavitù del peccato ad una vita di libertà, animata dall’amore, forza che abbatte ogni barriera e costruisce una nuova armonia nel proprio cuore e nel rapporto con gli altri e con le cose. Ogni cristiano, così come ogni comunità, se vive l’esperienza di questo passaggio di risurrezione, non può non essere fermento nuovo nel mondo, donandosi senza riserve per le cause più urgenti e più giuste, come dimostrano le testimonianze dei Santi in ogni epoca e in ogni luogo. Sono tante anche le attese del nostro tempo: noi cristiani, credendo fermamente che la risurrezione di Cristo ha rinnovato l’uomo senza toglierlo dal mondo in cui costruisce la sua storia, dobbiamo essere i testimoni luminosi di questa vita nuova che la Pasqua ha portato. La Pasqua è dunque dono da accogliere sempre più profondamente nella fede, per poter operare in ogni situazione, con la grazia di Cristo, secondo la logica di Dio, la logica dell’amore. La luce della risurrezione di Cristo deve penetrare questo nostro mondo, deve giungere come messaggio di verità e di vita a tutti gli uomini attraverso la nostra testimonianza quotidiana.

Cari amici, Sì, Cristo è veramente risorto! Non possiamo tenere solo per noi la vita e la gioia che Egli ci ha donato nella sua Pasqua, ma dobbiamo donarla a quanti avviciniamo. E’ il nostro compito e la nostra missione: far risorgere nel cuore del prossimo la speranza dove c’è disperazione, la gioia dove c’è tristezza, la vita dove c’è morte. Testimoniare ogni giorno la gioia del Signore risorto significa vivere sempre in “modo pasquale” e far risuonare il lieto annuncio che Cristo non è un’idea o un ricordo del passato, ma una Persona che vive con noi, per noi e in noi, e con Lui, per e in Lui possiamo fare nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5).