V Domenica T.O. – A

Ogni uomo ha una sua propria luce e ognuno deve brillare di questa sua luce.

Dal Vangelo secondo Matteo (5,13-16)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.
Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

 

 

 

Il Vangelo di questa Domenica è preceduto da una lettura del vecchio Testamento che, come sempre nella liturgia domenicale, funge da chiave interpretativa o semplicemente da premessa. Nel testo odierno, tratto dal cap. 58 del profeta Isaia, il Signore dice a Israele: “Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua lucela tua tenebra sarà come il meriggio”. Già prima, a metà del passo biblico, il Signore aveva detto: Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto.

In entrambe le espressioni, il testo dice che Israele, cioè ogni membro del popolo di Dio, ciascuno di noi che ascoltiamo, abbiamo una “luce”, possediamo una luce propria che può restare nascosta o può brillare a seconda di certi nostri atteggiamenti ed opere. Ogni uomo ha una sua propria luce e ognuno deve brillare di questa sua luce.

Ogni uomo che viene al mondo ha una sua luce, ha una missione unica che gli appartiene come individuo. Fallire questa missione non è solo un problema in termini relazionali, ma anche e soprattutto fallire la propria vocazione, non essere quello che si è chiamati ad essere, non essere sé stessi. L’alternativa non è tra il brillare di luce propria e brillare di altre luci, ma tra l’essere luce e l’essere tenebra. Se non brillo della mia luce, se non sono ciò che sono e sono chiamato ad essere, allora sarò tenebra, semplicemente “non sarò”. Torna qui alla memoria il dialogo tra Dio che rivela a Mosè la sua vocazione di salvatore dei suoi fratelli schiavi in Egitto e questi che risponde: Chi sono io…? Io non sono… Io non so… (cfr Es 3). È proprio in questo contesto che venne rivelato a Mosè e quindi a tutto Israele il Nome di Dio “Io-Sono”. “Dio è” perché, come scrive l’apostolo Giovanni, “Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna” (1Gv 1,5).

L’uomo che non è luce, che vive come tenebra di sé stesso, non solo rinnega sé stesso, la propria identità, ma non è capace di vivere in relazione, altra caratteristica fondamentale dell’uomo. Nelle tenebre non solo non si appare, ma anche l’altro non appare. Quando si è tenebra non si è più persona, poiché caratteristica fondamentale dell’uomo è il suo essere “relazionale”.

Il problema, allora, dell’essere sale della terra e luce del mondo, come ascoltiamo oggi nel Vangelo per bocca di Gesù, prima che essere un problema di ordine etico-morale, è un problema di infedeltà alla propria più autentica verità. L’uomo è fatto per “brillare” della sua bellezza, della luce che ci si porta dentro. Ognuno di noi è chiamato a trarre fuori da sé stesso la luce che già vi si trova, non ad essere riflesso di altre luci. Noi siamo chiamati ad essere “luce del mondo” come lo è il sole, non come la luna che riflette semplicemente quella del sole.

 

 

In secondo luogo, siamo chiamati ad essere luce “del mondo”, cioè anche nei confronti di ciò che sta attorno a noi. In troppi, infatti, vogliono essere luce per sé stessi, di vivere la vita come sotto un riflettore per semplicemente mettersi in evidenza rispetto al resto del mondo. La nostra autenticità sta, invece, nell’essere luce che illumina gli altri, per gli altri, paradossalmente, come una candela, consumando sé stessi per fare luce attorno a sé. O come il sale che per insaporire deve sciogliersi e dissolversi nella pietanza.

In tutto ciò abbiamo un altissimo esempio in Gesù, “luce da luce” come recitiamo nel Credo, colui che è luce e in cui non c’è tenebra alcuna, che ci ha tanto amato da dare sé stesso per noi (cfr Gv 3,16). Essere luce, come colui che è la luce vera del mondo, significa fare della propria vita un dono d’amore per gli altri, bruciare, ardere d’amore per gli altri, senza temere di perdere sé stessi, poiché quando amiamo siamo noi stessi e donando amore non ci impoveriamo affatto. L’amore è quel roveto ardente (cfr Es 3) che brucia e non si consuma, che illumina senza diventare tenebra. Nel roveto ardente dell’amore ognuno “è” sé stesso non per sé stesso ma per coloro a cui Dio ci invia e ci mette accanto ogni giorno.

fra’ Saverio Benenati, ofm conv.