Martiri di Pariacoto, giovani frati uccisi perché predicavano la pace

Quelli che chiedono di essere ricevuti nel nostro Ordine, devono essere disposti al martirio (San Bonaventura). Fra Miguel e fra Zbigniew sono andati al martirio insieme, come piccola e testimoniante fraternità francescana. Nel viaggio finale verso il luogo del martirio, si diedero l’assoluzione sottovoce l’un l’altro.

Giustiziati, poco più che trentenni, dai guerriglieri maoisti per l’attività caritativa che svolgevano nella prima missione avviata in Perù nel 1989 dai Frati Minori Conventuali. «Ingannano il popolo perché distribuiscono alimenti della Caritas, che è imperialismo. Predicano la pace e così addormentano la gente», fu la sentenza del commando.

Czestochowa, 9 agosto 1991. La città e l’intero Paese sono in fermento: mancano appena cinque giorni alla visita di papa Giovanni Paolo II. Il Pontefice ha già visitato la sua terra natale in altre due occasioni. Stavolta, però, la ricorrenza è speciale: per la prima volta, la Giornata mondiale della Gioventù oltrepassa la “cortina di ferro”. Ondate di giovani da tutto il mondo si riversano in Polonia per l’evento. Michal e Zbigniew non possono esserci. La scelta che hanno compiuto undici anni prima li ha portati da qualche tempo lontano, a oltre 11mila chilometri di distanza. In Perù, tra le vette andine brulle e austere della Cordillera Negra, in quella manciata di case e strade sospese a 1.300 metri che prende il nome di Pariacoto, i due padri francescani portano avanti con coraggiosa pazienza la missione che la Chiesa ha affidato loro: testimoniare il Vangelo.

Padre Michal Tomaszek – o Miguel, dato che ha “ispanizzato” il nome per renderlo più familiare ai locali – e padre Zbigniew Strzalkowski lo fanno, con la parola e soprattutto con le opere. Per quasi tre anni assistono con fraterna solidarietà gli abitanti, dando concretezza, nel quotidiano, a quell’opzione preferenziale per i poveri profilata nelle Conferenze dell’episcopato latinoamericano di Puebla e Medellín.

I frati non si fanno scoraggiare dalla mancanza della luce elettrica, di una strada in grado di rompere l’isolamento, dalla siccità che proprio in quegli anni flagella la cordigliera, da un’epidemia di colera imprevista e, al contempo, prevedibile, date le precarie condizioni igieniche. Neppure la minaccia del terrorismo di Sendero Luminoso, il feroce gruppo guerrigliero pseudo-maoista che si macchia di massacri indiscriminati mentre vagheggia una non meglio definita idea di “rivoluzione”, li spaventa.

Non arriva nessun avvertimento diretto contro la missione francescana, ma la tensione è palpabile. Pur sapendo di rischiare, i frati decidono di rimanere con i propri fedeli. Anche in quel 9 agosto 1991. Un venerdì qualsiasi, verso sera. Strani movimenti in paese. La cuoca se ne rende conto, e corre ad avvisare i frati. «Non abbiamo niente da nascondere. Se vengono, daremo testimonianza della verità» risponde fra Zbigniew che si appresta a celebrare la Messa. Con lui fra’ Miguel, mentre fra Jarek è in Polonia, rientrato per il matrimonio della sorella. Verso le 21, i senderisti si fanno aprire il convento e chiedono dei frati; legano loro le mani e li spingono dentro una jeep. Una suora, Berta, non vuole lasciare soli i religiosi, e così viene sequestrata anche lei. È testimone del processo sommario al quale Miguel e Zbigniew vengono sottoposti. Le accuse sono di ingannare il popolo per intorpidirlo e dominarlo, usando il rosario, il culto dei santi, la Messa e la Bibbia: menzogne. Ai due frati viene imputato anche di anestetizzare la gente, frenandone l’impeto rivoluzionario, con la predicazione della pace; di essere servi della religione, che per i guerriglieri è l’oppio dei popoli. Non c’è spazio per ribattere: suor Berta viene scaraventata fuori dall’auto in corsa. I terroristi si proteggono la fuga bruciando un ponte, e a Pueblo Viejo, poco fuori dal paese, fanno scendere i due e li freddano con un colpo in testa.

«Sono i nuovi santi martiri del Perù», afferma Giovanni Paolo II quando, a Czestochowa, il 13 agosto, apprende la notizia. Con il Papa in quel momento c’è un altro francescano, padre Jarek Wysoczanski, il “terzo compagno” di Miguel e Zbigniew, sopravvissuto alla strage perché in quel periodo si trova in Polonia per il matrimonio della sorella.

La causa di beatificazione dei due sacerdoti è stata avviata nel 1995 e si è conclusa con il solenne rito che li ha dichiarati e indicati alla pietà dei fedeli “martiri della fede” il 5 dicembre 2015. Eppure la loro vicenda resta poco nota. Forse perché la memoria di quell’eccidio si è diluita nel calderone di orrori che è stata la “guerra sporca” peruviana: 70mila morti, 15mila scomparsi, migliaia di torturati tra il 1980 e il 2000, secondo la Commissione per la verità e la riconciliazione.

La storia dei due “frati dal saio grigio” resta, comunque, emblematica: in controluce si legge il martirio di un’intera nazione. Uno dei tanti, troppi «popoli crocifissi» di cui parlava il gesuita salvadoregno Ignacio Ellacuría, vittima della furia di uno squadrone della morte, il 16 novembre 1989. Non è facile comprendere tuttora, ad anni di distanza, le ragioni per cui Sendero Luminoso abbia deciso di accanirsi sui francescani di Pariacoto. «L’interrogatorio» a cui i terroristi sottopongono padre Miguel e padre Zbigniew mentre sono stipati in una camionetta è paradossale: i frati vengono accusati di «ingannare il popolo, di contagiare la gente distribuendo il cibo imperialista della Caritas». E ancora di «anestetizzarla, frenandone l’impeto rivoluzionario con la predicazione della pace».

Con lo sguardo deformato dall’ideologia, i senderisti – che mescolano la ferocia dei Khmer rossi cambogiani con l’afflato messianico dell’ideologo Abimael Guzmán e che per il loro fanatismo si inimicano la stessa sinistra peruviana – vedono la mano perennemente tesa e accogliente di fra’ Miguel e fra’ Zbigniew come una minaccia. Il loro sorriso, solidale e disinteressato, come concorrenza. I loro occhi sereni e colmi di speranza come una costante provocazione. E ne hanno paura, poiché ne intuiscono la forza dirompente. Per questo uccidono. A questo punto il dramma esce dai connotati del Perù sconvolto dalla follia di Sendero, e diventa paradigma di ogni epoca. Anche – o forse soprattutto – la nostra.

Pariacoto sorge non troppo distante dall’Oceano Pacifico, in quella terra di mezzo dove la pianura inizia a incresparsi, in vista delle vette andine. L’altitudine è di 1.200 metri, ma tutto intorno si superano già i 4 mila: il territorio della missione comprende cinque parrocchie e settantaquattro villaggi andini delle alture. Qui, il ministero di fra’ Miguel e fra’ Zbigniew è durato solo un paio d’anni (ma il loro, e nostro, Maestro testimonia che pochi anni sono un tempo sufficiente per annunciare l’intero Vangelo). Erano arrivati dalla Polonia, freschi di ordinazione, nel 1989, per fondare la missione di Pariacoto, la prima presenza dei frati conventuali in Perù.

Nel 1989, un anno dopo l’apertura della casa francescana a Pariacoto, fra le cime della Cordillera Nera del Perù, l’ordine decise di affidare la nuova missione al ventinovenne Michele, al trentunenne Sbigneo e al confratello Jarek Wysoczanski, poi scampato all’assassinio. Di fronte a una popolazione poverissima, i tre giovani risposero con grande spirito di sacrificio. Senza corrente elettrica riuscirono a far fronte alla siccità e al colera avviando un’opera educativa che, pur lentamente, permise uno sviluppo duraturo della popolazione. Ma i tre frati erano preoccupati innanzitutto di annunciare il Vangelo, vivendolo nel servizio ai poveri e rifiutando l’utopia della teologia della liberazione.

«Non avevamo mai toccato problematiche legate alla politica. Il nostro lavoro a Pariacoto consisteva nel servire i poveri ed evangelizzare. A noi sembrava di non fare niente per provocare», spiegò poi padre Jarek. I tre giovani francescani erano diventati i medici, gli insegnanti, i catechisti del villaggio, per cui celebravano Messa ogni giorno anticipata dall’adorazione eucaristica. Ma fu proprio questo a renderli invisi ai guerriglieri comunisti di Sendero Luminoso, che li accusavano di tramare contro la rivoluzione e la liberazione del popolo «con la recita del rosario, il culto dei Santi, la Messa e la lettura della Bibbia, predicano la pace e così addormentano la coscienza rivoluzionaria del popolo» e distribuendo «alimenti della Caritas, che è imperialismo».

La foto che li ritrae sorridenti, in saio grigio, con le palme alle spalle, risale a quel momento iniziale. Il terzo di loro era fra Jarek Wysoczanski, votato come guardiano della piccola fraternità. L’ambiente povero, senza tanti mezzi; la vita fraterna, e la fraternità come stile di relazione con tutti; la pastorale giovanile e vocazionale; la liturgia partecipata e il catechismo; la grande fiducia nella Provvidenza; l’aiuto medico, sociale e caritativo offerto tanto ai vicini che ai lontani, quelli delle alture, da raggiungere con giornate di cammino. Tutte queste attenzioni hanno caratterizzato il ministero dei tre frati, vissuto con l’entusiasmo dei 30 anni unito a genuina passione francescana. Il «guaio» è che hanno avuto successo.

Gli abitanti della missione si sono lasciati contagiare da questi bianchi poveri, sacerdoti e servi, mae­stri e compagni di strada al contempo. Hanno cominciato ad apprezzarli e a coinvolgersi: alcuni giovani addirittura sono entrati in postulandato, per prendere sul serio la possibilità di essere chiamati a consacrarsi. Il punto di svolta, poi, è il 4 ottobre 1990, festa di San Francesco. Vengono invitate le cinque parrocchie, e gli abitanti dei villaggi. Verranno? Con tutta la strada che hanno da fare? Vengono! Portando chi una capra, chi del mais, chi delle galline. Sono offerte per il convento, ma vengono messe subito a disposizione e cucinate, per festeggiare tutti insieme, tra musiche e danze. «Mai si era vista tanta gente a Pariacoto – ricorda fra Jarek –. Ripensandoci, credo che quella festa così riu­scita fu la nostra condanna. Era una manifestazione di fede, di amore, di solidarietà, di condivisione, la scelta del popolo di diventare protagonista del territorio insieme con i frati, con la Chiesa. Non tutti potevano esserne soddisfatti».

Avevano 31 e 33 anni. Sui corpi è lasciato un biglietto col simbolo della falce e martello e una scritta: «Così muoiono i servi dell’imperialismo».

 

Dalla Lettera “Cuore e orizzonte della missione. In vista della beatificazione di fra Miguel e fra Zbigniew” di fra’ Marco Tasca, Ministro Generale OFM Conv.

Il cap. XVI della Regola non bollata, dedicato alla missione, si apre e si chiude facendo riferimento – attraverso esplicite citazioni scritturistiche – alla realtà del martirio: “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi” (Mt 10,16); “Beati quelli che soffrono persecuzione a causa della giustizia…” (Mt 5,10); “Non temete coloro che uccidono il corpo…” (Lc 12,4). In effetti, a quei tempi, soprattutto per chi praticava la missione tra i saraceni, l’esito del martirio non era soltanto una lontana ipotesi. Era dunque necessario che i frati ricordassero come con l’ingresso nell’Ordine avevano consegnato il loro corpo al Signore, accettando per amor suo di esporsi a ogni prova. Nulla sarebbe stato loro tolto che essi non avessero già precedentemente offerto. Si ribadisce, con grande chiarezza, uno degli orizzonti a cui la vita cristiana (e ancor più francescana) è per sua natura costantemente affacciata, dal momento che il martirio è inscritto nel battesimo. Su questo punto è del tutto esplicito il concilio Vaticano II: in verità, “se il martirio è concesso a pochi, tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa” (Lumen gentium n. 42). Che poi la vocazione francescana contempli l’orizzonte del martirio era già chiaro a uno dei primi e più autorevoli commentatori della Regola, san Bonaventura: “Quelli che chiedono di essere ricevuti nel nostro Ordine, devono essere disposti al martirio” (Expositio super Regulam, cap. II, in Opera Omnia, t. VIII, p. 398).

Il secolo XX ci ha regalato l’esempio luminoso di fra Massimiliano KOLBE che ha dato la vita su uno dei Golgota più drammatici della storia recente, solo per amore. Da pochi mesi abbiamo celebrato la beatificazione del martire sardo fra Francesco Zirano ucciso in odium fidei nella città di Algeri nel lontano 25 gennaio 1603. Ora, altri due confratelli, fra Miguel e fra Zbigniew, si aggiungono al corteo dell’Agnello immolato nella città celeste, testimoni credibili della fede. Non possiamo qui non citare le commoventi parole di padre SERRINI contenute nella lettera di Natale del 1991 a tutto l’ordine: “Il sangue sparso da due giovani fratelli il 9 agosto 1991 si è unito al sangue di san Massimiliano Kolbe, della stessa origine polacca, che cinquant’anni fa (solo con cinque giorni di differenza) anch’egli offrì la sua vita. È un doppio tributo per lo stesso martirio della carità e della fede, indicando la continuità perfetta e il santo contagio di una testimonianza viva che nasce nei momenti della verità nella vita di individui e famiglie”.

Quale responsabilità! Innanzitutto, in relazione alla missione, che del martirio è il contesto naturale, perché è in seguito all’annuncio del Vangelo di salvezza che scaturiscono le persecuzioni. Più la luce della fede risplende e più le tenebre si infittiscono e tentano di soffocarla. La tiepidezza, invece, che non disturba più di tanto, passa inosservata e non trova oppositori.

In secondo luogo, in relazione alla fraternità. Nel caso dei nostri due martiri, si voleva colpire una fraternità accomunata dallo stesso ideale, il cui cuore batteva al ritmo del Vangelo e le cui opere diffondevano il profumo di Cristo. Fra Miguel e fra Zbigniew sono andati al martirio insieme, come piccola e testimoniante fraternità francescana. È commovente la testimonianza di suor Berta HERNÁNDEZ secondo la quale i frati, nel viaggio finale verso il luogo del martirio, si diedero l’assoluzione sottovoce l’un l’altro. Sempre più, in futuro, la testimonianza dei francescani sarà offerta da comunità che vivono una comunione autentica e profonda.

In terzo luogo, in relazione al popolo e ai poveri, che fra Miguel e fra Zbigniew hanno servito con amore e generosità. Chi evangelizza i poveri viene da loro evangelizzato, introdotto cioè al cuore del Vangelo che è la preferenza di Dio per i piccoli e gli ultimi. Per questo, la vicinanza ai poveri è stata e sempre sarà per i francescani una via sicura per vivere il Vangelo di Gesù Cristo in pienezza.

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Libro consigliato:
TITOLO: La vita è dono. Miguel e Zbigniew beati martiri.
AUTORE: Alberto Friso
EDITORE: Edizioni Messaggero Padova