Dentro ogni uomo e donna c’è un capolavoro che attende solo di venire alla luce.
È sorprendente come i primi discepoli di Gesù, i dodici, siano state a prima vista le persone meno adatte a svolgere la missione di apostoli. Pietro, unitamente ad Andrea suo fratello e Giacomo e Giovanni, vengono chiamati ad essere pescatori di uomini nonostante una battuta notturna finita nel nulla di fatto. Natanaele è piuttosto scettico sulla bontà di un nazaretano. Matteo, che di mestiere faceva l’esattore delle tasse (forse anche un po’ strozzino), aveva poca dimestichezza con la misericordia… Senza trascurare il fatto che la Maddalena fu posseduta da sette demoni e la samaritana non riusciva a tenersi stretto un marito, se andiamo indietro nel tempo e nelle pagine della Bibbia, troviamo che Noè alzava un po’ il gomito, Abramo era troppo anziano per avere una discendenza, Giacobbe un grande imbroglione, Mosè era balbuziente, Geremia troppo giovane, Davide un adultero e omicida, Elia era incline alla depressione, Giona sbagliava volutamente direzione… e potremmo continuare così con tanti altri.
Insomma, a ben vedere, i grandi personaggi della Bibbia non erano un modello di perfezione, di capacità, di doti umane. Erano uomini e donne come chiunque altro, come me e te, con tanti pregi e innumerevoli difetti, e magari con qualche vizio che risaltava particolarmente alla vista degli altri.
Perciò, è normale che di fronte alla propria personale chiamata da parte di Dio, al discepolato-missionario come ad un particolare ministero nella comunità, piuttosto che alla vita matrimoniale come a quella religiosa o sacerdotale, ci si avverta più o meno inadatti, incapaci o al posto sbagliato. Sarà sempre troppo presto per rispondere alla chiamata e per mettersi in cammino in maniera appropriata; ci sarà sempre troppa paura per decidersi per il Signore, ci sarà sempre almeno un difetto nella propria vita che ci farà sentire inadeguati.
Ma cosa è veramente la “vocazione”? Per molti è un “Mi sento chiamato a…” fare questo o quell’altro. Che è già una cosa buona se questo “sentire” non è il prodotto dell’ascoltare sé stessi e i propri desideri o persino ambizioni, bensì dell’ascolto di un pensiero che non è nostro ma che avvertiamo essere messo nel cuore da parte di “qualcun altro”, da Dio: “Sento che Dio mi sta chiamando a…”.
Quando sono i nostri desideri a guidare le scelte, normalmente mettiamo da parte i nostri difetti e ci concentriamo sui nostri pregi e capacità, vere o presunte che siano. Quando, invece, la chiamata proviene fuori da noi stessi, da Dio, allora tiriamo fuori tutti i “se” e tutti i “ma” di questo mondo, perché emergono immediatamente tutti i nostri difetti, veri o presunti, ma soprattutto la grande distanza che c’è tra la nostra piccolezza e limitatezza umana e la grandezza di Dio e ciò a cui ci sta chiamando. Perché Dio non si accontenta mai di cose piccole, minute, banali, ma chiama sempre a qualcosa di grande, non a nostra misura, ma alla sua misura, oltre noi stessi, i nostri desideri e le nostre capacità umane.
Come se ne esce fuori dai loop mentali che impediscono a tanti giovani di intraprendere un cammino di fede o di svolgere un servizio per la comunità o di compiere le scelte importanti e definitive della propria vita quali la chiamata alla vita matrimoniale o a quella consacrata, la chiamata alla paternità/maternità piuttosto che alla fecondità spirituale nella missione evangelizzatrice della Chiesa? Dalla consapevolezza che Dio quando ci chiama a seguirlo, a compiere delle scelte secondo i suoi progetti, non pretende che diventiamo dei supereroi. La preoccupazione del tipo “Ce la farò? Ne sarò capace? Come dovrò fare?…” è un falso problema, una menzogna del Maligno che vuole scoraggiarci e dissuaderci dal corrispondere ai progetti di Dio per noi.
Dio quando chiama Abramo gli dice: “Farò di te una grande nazione…” (Gen 12,2); quando chiama Geremia che si lamenta di essere troppo giovane e di non saper parlare, dice: “Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca. Vedi, oggi ti do autorità sopra le nazioni e sopra i regni…” (Ger 1,9-10); quando chiama Pietro e i suoi compagni pescatori, dice: “Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini” (Mt 4,19). La vocazione non è mai la chiamata a fare e saper fare, ma a lasciar fare a Dio! Dio quando chiama non vuole tanto che noi facciamo qualcosa per lui, ma è Lui che vuol fare qualcosa per noi e con noi e di cui non siamo capaci con le nostre sole forze.
Scegliere di seguire il Signore, di farci suoi discepoli-missionari, da giovani, fidanzati, sposati, consacrati, padri e madri, impiegati o disoccupati, laureati o analfabeti, è semplicemente permettere a Dio di fare qualcosa che va al di la delle nostre umane capacità, dei nostri desideri e delle nostre paure, dei nostri progetti e dei nostri passati fallimenti. Seguire il Signore è mettersi nelle sue mani come argilla nelle mani del vasaio e permettergli di fare della nostra vita un capolavoro.
Michelangelo diceva che quello dello scultore è “l’arte del levare”. Di fronte ad un blocco di marmo pesante e spigoloso, lui vedeva quel capolavoro nascosto che attendeva solo di essere liberato dal superfluo che lo imprigionava e lo teneva nascosto. Così Dio con ognuno di noi: lui vede dentro di noi, imprigionato nelle nostre pesantezze, spigolosità e difetti superficiali, un capolavoro che deve solo essere liberato da sé stesso, dalle proprie paure, indecisioni, sensi di incapacità e di inadeguatezza. Lui ci conosce più di quanto noi conosciamo noi stessi e vede molto più lontano dei nostri orizzonti limitati. Egli ci apprezza molto più di quanto noi stimiamo noi stessi perché ci conosce in profondità, poiché è più intimo a noi di noi stessi. E scopriremo che rispondere alla sua chiamata e seguirlo sulla via del Vangelo è il modo migliore per essere veramente noi stessi, quello per cui siamo stati pensati, voluti e amati da Dio.